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Teologia dell’ora nona

Venticinque anni fa, il 22 marzo 1996, moriva Sergio Quinzio. La sua voce è più che mai profetica in questi tempi di pandemia. E non cessa di farsi sentire. È in corso di pubblicazione la nuova edizione della prima monografia a lui dedicata, di cui pubblichiamo in anteprima uno stralcio

di Massimo Iiritano

Quando quindici anni orsono ho scelto di utilizzare la “teologia dell’ora nona” quale cifra simbolica e fulcro tematico intorno al quale attraversare tutto il pensiero e la testimonianza di Sergio Quinzio, le motivazioni possibili erano davvero tante e tutte evidenti[1]. Del resto già teologi e filosofi prima di me avevano opportunamente evidenziato quanto quel “luogo” e quel “momento” del Vangelo fossero così cruciali nella prospettiva religiosa ed esistenziale di un “cristianesimo dell’inizio e della fine” quale quello vissuto e pensato da Quinzio.

Fermarsi all’ora nona, non farne un semplice, seppur tragico “passaggio”, ma osarne pensare e sentire tutta la pesante e insostenibile drammaticità in termini propriamente teologici, significava infatti finalmente prendere sul serio quella che Quinzio aveva osato definire come la possibile “sconfitta di Dio”. Una possibilità certamente insostenibile per la fede ma che pure solo può sostenerne ancora l’unica pensabile attualità. La prospettiva non è infatti per Quinzio semplicemente “esistenziale”, quanto al contempo storico-escatologica: nel dramma dell’ultimo grido di abbandono sulla croce riecheggia l’eco di quel nichilismo in cui la storia intera sembra essere ormai sprofondata. Dinanzi all’abisso insostenibile di un nonsenso che dilaga, di un’apocalisse compiuta, senza più alcuna redenzione.

È questa la verità “storico-profetica” di quel grido, che fa della “teologia dell’ora nona” una straordinaria, seppur tragica, “teologia della storia”, come in diversi passaggi dei suoi scritti Quinzio aveva chiaramente espresso. “Proprio perché il moderno non è – così almeno appare ai miei occhi – che il calco della rivelazione cristiana, conduce alla fine al nichilismo, anch’esso traduzione secolarizzata del grido di abbandono gridato da Gesù Cristo sulla Croce”[2].

Così, nell’ora nona. Così nell’ultima disperata invocazione di Cristo sulla croce. Che dice una verità comunque innegabile, presente e lacerante: la verità dell’Abbandono. In un breve e delicatissimo scritto intitolato “Una fessura tra le pietre”, Quinzio scriveva: “La carta da lettere di André Neher portava come motto, naturalmente in ebraico, queste parole che nel libro di Isaia Dio rivolge a Gerusalemme: «Ti ho incisa sulle palme delle mie mani» (49, 16). Ma a incidere le mani di Dio, che secondo la dura espressione degli Atti degli Apostoli a Gerusalemme ha versato il suo sangue (20, 28), sono stati i chiodi della croce. I chiodi della croce e la città santa di Gerusalemme diventano allora, per la mia fede nella divina messianicità di Gesù, una cosa sola”[3]. Un’immagine che letteralmente inchioda a quella che Gioacchino da Fiore aveva definito la “concordia Novi ac Veteri Testamenti”. Una “concordia” che diviene qui un tragico e profetico ritrovarsi di Antico e Nuovo, nel solco di un’identica attesa e di una stessa disperata mancanza.

Ecco che ancora una volta, come nell’immagine citata da Nehèr, nel senso profondo di quell’Abbandono, l’ora nona riecheggia nel destino tragico di un’elezione che si fa maledizione. E che trova in Cristo il suo momento messianico “cruciale”: quell’istante assoluto in cui tragicamente e disperatamente tutto ritorna. Ma che proprio per questo può ancora aprirsi all’invocazione. “L’istante della morte sulla croce” contiene in sé ciò che è stato, che è e che sarà. Istante profetico in cui la verità si fa parole e storia: aprendosi allo spiraglio messianico ed escatologico che la rende viva, nonostante ogni possibile negazione e abbandono.

“Paradossalmente la fede implica, come nel grido del Signore sulla croce, l’esperienza del perderla, del non poterla tenere, stringere: anche e forse soprattutto la fede è come il grano di frumento che, dice il Vangelo di Giovanni, se non muore non porta frutto. È tutto terribile: ma se Dio muore crocifisso, non può non essere tutto terribile[4]. Pensare quell’istante assoluto nella sua pienezza esistenziale ed escatologica è dunque possibile solo se si è capaci di lasciare aperta la possibilità, reale, del nulla. Di un abbandono che fa pensare in qualche modo al discorso del Cristo morto di Jean Paul o ad alcune memorabili pagine di Miguel De Unamuno. Testi e riferimenti ben cari e presenti alla sensibilità e al pensiero di Sergio Quinzio.


[1] Cfr. M. Iiritano, Teologia dell’ora nona, Città Aperta 2006; seconda edizione prossimamente in uscita per Castelvecchi.

[2] S. Quinzio, Cristianesimo e nichilismo, testo della conferenza tenuta all’Università di Cassino il 12 maggio 1995.

[3] S. Quinzio, Una fessura tra le pietre, in AA.VV., Gerusalemme, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 197-202. Lo scritto è stato poi riedito in AA.VV., Il Messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Qunzio, a cura di D. Garota e M. Iiritano, Rubbettino 2004.

[4] S. Quinzio, Dalla gola del leone, Adelphi, Milano 1980, p. 20.

Phoro Jr Korpa on Unsplash


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