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La lezione del Papa: toccare il dolore dell’altro

Nel parlare da Fabio Fazio della sofferenza inutile dei fanciulli si fa chiave di lettura di un cristianesimo sofferente, mai sbandierato come risposta, sempre aperto e lacerato nella domanda, sempre pronto ad accogliere l’inquietudine dell’altro. Una riflessione filosofica

di Massimo Iritano

C’è un passaggio, nella conversazione di Papa Francesco con Fabio Fazio, che in quello straordinario equilibrio tra delicatezza e profondità capace di incantare milioni di telespettatori, è riuscito a “toccare” uno dei temi e dei drammi teologici che da sempre attraversano la storia del cristianesimo.

Lo ha fatto con una precisione veramente notevole, e con un’apertura di pensiero abissale, degna dei più audaci filosofi e scrittori del Novecento, a partire dal citato Dostoevskij. Si tratta del tema del male, e più precisamente dell’unde malum, come dicevano i latini: ossia l’interrogativo sulla sua origine e sulla sua possibile comprensione e giustificazione per il credente.

Dinanzi all’oscillante e indecisa domanda di Fazio, infatti, Papa Francesco non ha utilizzato nessuna delle troppo facili e consuete vie con le quali, da sempre, l’uomo di Chiesa, il rappresentante del depositum fidei, in qualche modo tenta di mettere in salvo le sue certezze, lasciando drammaticamente inascoltati dubbi e inquietudini che dovrebbero in realtà essere la sostanza stessa della sua fede.

“Dio è onnipotente solo nell’amore”: la sua onnipotenza non ha nulla a che fare con la fredda natura metafisica del Dio aristotelico, di quel “motore immobile” che la Scolastica aveva utilizzato per risolvere in termini filosofici e razionali l’irrisolto dramma originario che abbiamo sentito potentemente riecheggiare, ieri sera, in prima serata, nelle parole del Pontefice. Un Dio “onnipotente nell’amore”, che ci ricorda da vicino quello evocato da Hans Jonas nel “concetto di Dio dopo Auschwitz”: che può ancora essere “credibile” e pensabile per l’uomo, solo se osa rinunciare agli attributi della Potenza e della Giustizia, per salvare, alla fine, quello della Misericordia.

Si tratta del Dio crocifisso, che dinanzi alla sofferenza “inutile” dell’innocente, richiamata nel dialogo televisivo di ieri, possiamo immaginare solo come compartecipe, sofferente, dello stesso scandalo ingiustificabile del male.

Si tratta, ancora, del Dio che difende il lamento e l’urlo di Giobbe, dinanzi alle giustificazioni dei suoi falsi consolatori. Perché, come ha detto ieri il Papa, esiste in origine qualcosa di irrisolto: vi è qualcosa che non è bene, che non è luce, perché in origine sfugge al dominio di Dio sulla Creazione.

Ecco allora che il richiamo a Dostoevskij, nel parlare della sofferenza inutile dei fanciulli, si fa chiave di lettura di un cristianesimo sofferente, mai sbandierato come risposta, sempre aperto e lacerato nella domanda, sempre pronto ad accogliere l’inquietudine dell’altro, a “toccare” la sua sofferenza.

Un “cristianesimo senza religione”, lo aveva definito Bonhoeffer, teologo e martire che di sicuro immagino presente nel repertorio spirituale e teologico di riferimento di un Papa che potremmo paradossalmente definire “anticlericale”: se per clericalismo si intende ciò che ieri sera è stato da lui stesso definito come la via “ideologica” di una testimonianza di fede che prende la forma di una “rigidità” da sempre estranea al sentimento autentico della fede. E del Dio onnipotente nell’amore.


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