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Cooperazione & Relazioni internazionali

Ucraina, la guerra e le sue facce: la paura e la speranza

I confini polacchi e la resistenza dei volontari a Lviv, in Ucraina. Anticipiamo alcuni brani del reportage che uscirà sul numero di Aprile di Vita magazine

di Anna Spena

L’A4 è un’autostrada polacca. Attraversa il Paese da ovest ad est, traccia il percorso che arriva ai valichi di frontiera con la Germania e quello che da Cracovia porta fino al confine ucraino. Nelle ultime settimane è abitata da camion e minivan che la percorrono ad ogni ora. Sui mezzi, a caratteri cubitali, sempre le stesse lettere: Humanitarian Aid. Gli aiuti umanitari servono ai confini ad est, i più prossimi all’Ucraina. I confini sono la fotografia della guerra, solo un’altra faccia dove non si vedono le armi e non si sentono i colpi di mortaio. Ma a chi oggi popola questi confini il rumore delle bombe gli sbatte nelle orecchie come una paura, la stessa che li ha fatti scappare dalla loro casa. Dov’è casa? Casa non c’è più. Qualcuno si chiede se è rimasta in piedi. Tutti hanno una domanda che non si fa parola. “Che succede adesso a chi amo ed è rimasto lì”.

Przemyśl Główny

(…) A Przemyśl Główny arrivano le persone che sono riuscite a salire su un treno in partenza da una città ucraina, come Olga che è scappata con la madre: «mio padre è rimasto a Dnipro a combattere», racconta. Alla stazione di Przemysl la guerra ha un odore preciso: quello di corpi ammassati e più di tutto la faccia dei bambini – vestiti con abiti da nevee degli anziani. I primi messi in salvo dalle madri, per loro scappare significa la possibilità di una vita nuova, hanno dalla loro parte il tempo. Agli antipodi gli anziani, loro no, il tempo per una vita nuova forse non ce l’hanno. E se ne stanno li, con la loro disperazione composta per colpa di un’altra guerra insensata. La guerra ha certamente la faccia delle donne come Alina, Ania e Katia, due sorelle con la loro madre. Nessuno parla inglese. Ania ha 13 anni, dice: «Solo ucraino e russo». Su russo si ferma, fa una smorfia a metà tra il beffardo e il rassegnato con la faccia. Per raccontarsi si aiuta con il traduttore: «Siamo arrivate da Dnipro. Vogliamo andare a Praga, vogliamo vivere sicure. Papà? Papà no, lui non poteva partire». Al di qua dei confini gli uomini sono i grandi assenti, chi ha dai 18 ai 60 anni non può lasciare l’Ucraina, la deve difendere.

Korczowa

Cosa vuoi fare in Germania? “Vivere” Liuba ha 40 anni. È scappata da Kirovograd. Nelle mani stringe il cellulare, sta guardando i video della sua città che è stata bombardata. Sei partita da sola? «No», gira la testa e indica il suo cane. Una femmina, un cane grande.

Tutti, o quasi, hanno un animale domestico con loro. Da casa non hanno portato niente, non c’era tanto tempo. L’animale è l’unico segno di quella che era la loro vita prima, un legame di carne con una quotidianità che non esiste più. Liuba è seduta su una brandina del Korczowa dolina centrum handlu in Polonia, la frontiera più vicina è a pochi minuti.

Chi può l’attraversa in macchina, ma la maggior parte non può, e quindi varca il confine a piedi. Immaginatevi questo centro commerciale, che dallo scorso 24 febbraio, si è trasformato in un campo di accoglienza provvisorio. Le brandine riempiono tutti i corridoi e le stanze che sarebbero dovute essere negozi (…).

Border Crossing Dolhobyczon Uhrynow

Siamo entrati in Ucraina per una frontiera secondaria, meno affollata. Poco dopo il confine un militare salutava la moglie e la figlia. La bambina teneva un cagnolino al guinzaglio e con la mano libera reggeva una gabbietta, dentro c’era un coniglio. Da lì a poco sarebbero arrivate anche loro in Polonia ad aggiungersi agli oltre due milioni di profughi che sono arrivati o passati dal Paese. Marito e moglie si stringevano forte, la testa di lei incastrata nel collo di lui. Ma lei lo abbracciava con gli occhi chiusi. Non chiusi e basta, proprio stretti, impegnati nello sforzo di non voler guardare. Appena prima il valico di frontiera e subito dopo i banchetti delle ong distribuiscono pasti caldi e dolci. E sono stati istallati dei bagni chimici, messi lì per quando l’attesa è lunga. E in alcuni giorni per uscire dall’Ucraina le persone sono stata in fila anche dieci ore. Su entrambi i lati della strada che portano a Lviv si intravedono i comuni di periferia abitati da dalle case basse che si alternano a palazzoni grigi. Dalle finestre poche luci accese. La strada che porta fino a Lviv è uno slalom tra i cavalli di frisia, sacchi di sabbia, fuochi improvvisati nei bidoni per riscaldare dal freddo chi sta di guardia ai checkpoint. La nebbia appesantisce l’aria.​

Lviv

Qui a Lviv la guerra è ancora di profilo, un profilo che però appartiene a due facce diverse: la paura e la speranza. All’inizio dell’invasione russa si pensava che la parte Ovest del Paese fosse sicura, che sarebbe stata risparmiata dai missili, e invece no. Le sirene hanno iniziato a suonare presto anche qui, con la luce e con il buio, e non lasciano scampo perché il loro è un suono senza ritmo, è solo lungo, senza fiato. Le sirene di notte spaventano di più, di giorno non c’è tempo. La città è diventata un centro di accoglienza e volontariato a cielo aperto, è frenetica, e la paura lascia il passo al fare. Poco più di 700mila abitanti che in queste settimane hanno superato il milione per ospitare gli sfollati interni. Le persone hanno imparato presto che se non c’è un bunker dove nascondersi è meglio stare tra due muri, il primo per attutire le schegge e il secondo per proteggersi. I missili qui (almeno fino a quando scriviamo) sono caduti una mattina all’alba, erano diretti all’aeroporto civile e un pomeriggio, quando hanno colpito un deposito petrolifero. Si dorme con le scarpe vicino al letto e con i documenti a portata di mano. Lviv dista 70 km dal confine polacco, la città è strategica, da qui passano tutti gli aiuti umanitari che servono per le migliaia di profughi che ogni giorno, senza sosta arrivano in città, e soprattutto da qui passano gli aiuti che poi dovrebbero essere portati nelle città sotto assedio. Il condizionale in guerra è d’obbligo, non c’è nessuna certezza che i camion riescano a raggiungere le altre zone del Paese. Questo è il profilo della paura, ma in mezzo alla bruttura della guerra, davanti alla sua totale e profonda insensatezza, l’umanità si fa strada e traccia percorsi precisi. A Lviv le persone stanno tracciando quello della speranza.

La stazione di Lviv è diventata un unico corpo di persone che si muove in due direzioni: chi scende dai treni che ancora riescono a partire dalle città sotto assedio e chi si mette in fila, e si trascina quel poco che è riuscito a prendere da casa, per salire su un altro treno, o su un bus, che li porterà fuori dal Paese. I biglietti non si pagano, si sta li in un’attesa che è pienissima, perché le persone riempiono tutto lo spazio e sembra che non esista altro, e ordinata insieme, nessuno sgomita per essere il primo. Tutti qui condividono lo stesso dolore. Ci sono centinaia di volontari, indossano casacche gialle. In molti sono giovani, spesso sfollati dalle città sotto assedio che hanno deciso comunque di non lasciare il Paese. Indirizzano le persone su dove passare la notte, distribuiscono pasti caldi, vestiti. Ci sono i gazebo della croce rossa ucraina, delle ong internazionali, della Caritas. É una stazione diversa da Przmysil, c’è più paura che sgomento. In città ogni casa privata, ogni luogo pubblico, ogni scuola è diventata un centro di accoglienza o un hub che raccoglie, smista e prepara pacchi umanitari (…).

Prima dell’inizio della guerra la palestra Sport Life, poco distante dalla stazione, aveva mille clienti al giorno. Le sale dove si giocava a panel sono diventate rifugio per la notte. Lilia ha 50 anni, ne dimostra molti meno. Non si fa fotografare, dice che non si è mai vista così sfatta e brutta. «Bruciava tutto, bruciava la mia casa, sono morte le persone con le bombe», piange. «Chiudete i cieli, chiudete i cieli», piange ancora. Traduce per lei Yevgeniy, che ha 41 anni, e adesso lavora con l’organizzazione umanitaria WeWorld che ha aperto un progetto di protezione in città. Ma fino a prima dell’inizio della guerra lavorava come sales per un’azienda di servizi ingegneristici. É alto e longilineo e ha sempre una sigaretta in bocca: «Non fumavo da sei anni. Il sei marzo hanno bombardato Irpin, la mia città. Alle due di notte sono uscito fuori, tutto era esploso e io ho riacceso una sigaretta. Ho una moglie e una figlia adolescente, siamo scappati a Kyïv, e dopo due giorni io sono venuto a Lviv, mia moglie e mia figlia sono in una città sicura». Ma l’aggettivo sicuro in Ucraina oggi non esiste più (…). A Leopoli l’accoglienza è diventata un incastro perfetto – e non detto – tra privati e istituzioni. All’inizio della guerra il direttore del Palazzo delle Arti della città ha chiamato a raccolta i suoi “togliamo i quadri dalle pareti. Il palazzo diventa un hub umanitario”. Al posto dei dipinti ora ci sono fogli A4 dove è indicato il contenuto degli scatoloni. Tre piani, uno dedicato ai farmaci, uno al cibo a lunga conservazione e ai kit igienici, un altro alla scarpe e ai vestiti. 300 volontari coprono i turni su 24 ore al giorno. I rifugiati si mettono in fila, si registrano e chiedono quello di cui hanno bisogno. «E poi ci sono i pacchi per il fronte», dice Julia, 18 anni, prima dell’inizio dell’invasione russa era una studentessa di economia. «Distribuiamo fino a 500 pacchi al giorno, e andremo avanti, fino alla fine».

Nella chiesa che porta il nome di Papa Giovanni Paolo secondo, una chiesa che traccia il confine tra il centro e l’inizio della periferia della città, sostenuta anche dall’Onu italiana Avsi, nella casa parrocchiale si accolgono i profughi, soprattutto mamme con bambini. Natalia ha 39 anni e tiene in braccio Anastasia, due mesi e mezzo, e poi c’è Johor di nove anni. Arrivano da Kyïv «non so dove voglio andare, non so cosa voglio fare. Mio marito è rimasto a combattere, mi chiama e mi dice che sparano tutti i giorni. Dove vado? Dove andiamo?». Tamara ha 69 anni, è scappata da Charkiv: «i miei figli non sono voluti venire via. Mi hanno messo su un treno e sono arrivata qua. Aspettiamo la vittoria ma chiudete i cieli, chiudete i cieli, ci cadono le bombe in testa».

Nella chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, una delle chiese cattoliche più importanti della città, vicino a piazza Rynok, la principale di Leopoli, la gente prega composta. Nella navate laterali sono esposti i cartelloni con le immagini dei giovani già morti nel conflitto. «I nostri eroi», dice Margherita. «I nostri eroi», ripete. Si porta la mano alla bocca e manda un bacio verso le immagini. Margherita con il marito avevano appena comprato un terreno, dovevano costruire una casa più grande. «Adesso è tutto fermo. Ma questo non è il tempo della ricostruzione, adesso dobbiamo avere la forza per sopravvivere». Alle nove di mattina, tutte le mattine, un minuto di silenzio per le vittime. Lviv è una città caotica, trafficata. Eppure silenziosa, con le orecchie sempre tese ad ascoltare i rumori del cielo.

Medyca border e Rzeszów Główny Railway station

Medyca, questo valico di frontiera polacco vicinissimo a Lviv, le persone passano il confine anche a piedi. Ma dall’Ucraina, dopo l’afflusso iniziale alle frontiere, escono sempre meno rifugiati. Spostarsi dalle città sotto assedio è diventato difficile. E se il Paese si continua a svuotare che ne sarà dopo?(…) Alla stazione di Rzeszów, un’altra stazione di confine, due fratelli sono fermi nell’ingresso. Non si capisce chi sia il maggiore, uno spinge la sedia a rotelle dell’altro. Quindi la disparità esiste anche nella tragedia: una cosa è scappare, provare a metterti in salvo, sulle tue gambe, un’altra è farlo su una sedia a rotelle. Una cosa è pensare di metterti in salvo con tuo fratello, un’altra è farlo mentre spingi la sua sedia sedia a rotelle. Siamo davanti a una primissima accoglienza senza eguali, ma dobbiamo ricordaci che quello che sarà dopo è una domanda che dobbiamo farci adesso.


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