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Le università e l’impatto sociale, oggi gli atenei si valutano così

Presentata oggi a Roma questa modalità innovativa nel corso di un evento promosso dal Forum Disuguaglianze e Diversità e dal Cnel, con il patrocinio di Anvur. Il 30 giugno si è infatti conclusa la Valutazione della qualità della ricerca 2015-2019, da cui sono emersi tanti dati da analizzare. Illustrati i principali risultati emersi dai casi studio di “terza missione” degli atenei italiani

di Luigi Alfonso

Esiste un modo nuovo di valutare l’impatto sociale delle Università, basato non solo sul numero di brevetti e la conseguente “privatizzazione della conoscenza” ma anche in termini di lotta alle disuguaglianze. Questa modalità innovativa è stata presentata oggi a Roma, nella sala Gialla del Cnel, nel corso dell’evento promosso dal Forum Disuguaglianze e Diversità e dal Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro con il patrocinio di Anvur, dal titolo “Verso un nuovo modo di valutare l’impatto sociale delle università”, che si è tenuto dopo la conclusione della Valutazione della qualità della ricerca 2015-2019 effettuata dall’Anvur. Sono stati analizzati i principali risultati emersi dalla valutazione dei casi studio di “terza missione” e impatto sociale degli atenei.

Se prima l’impatto sociale delle Università era valutato in base a ciò che gli Atenei erano stati in grado di produrre per il mercato, adesso hanno la possibilità di raccontare e far valutare il loro impegno sociale e il conseguente impatto sulla giustizia sociale e ambientale. Un processo innescato dal lavoro congiunto del ForumDD con un gruppo di università, nato da una delle proposte contenute nel Rapporto “15 proposte per la giustizia sociale”. Questo lavoro è poi confluito all’interno di un gruppo di lavoro del Ministero che, prima di terminare le sue attività, ha contribuito a modificare il metodo di valutazione dell’Anvur risvegliando interesse e dibattito pubblico sul ruolo delle università e degli enti pubblici di ricerca come promotori di giustizia sociale e ambientale.

I lavori, introdotti dal presidente Cnel, Tiziano Treu, sono stati coordinati da Patrizia Luongo del Forum Disuguaglianze Diversità. I risultati del lavoro, iniziato nel 2019 e concluso il 30 giugno scorso, sono stati illustrati da alcuni componenti dell’Anvir: il presidente Antonio Uricchio, Brigida Blasi e Sauro Longhi, direttore del Gev Terza Missione dell’Anvur.

«Da questo lavoro – ha detto Uricchio – emerge chiaramente come l’università italiana sia cambiata in questo inizio del nuovo millennio. Un cambiamento che riflette anche la percezione dell’università che la società civile ha iniziato a maturare: non più come una torre d’avorio da riconoscere nella sua autoreferenzialità, semmai parte del contesto sociale che promuove dei modelli attraverso la valorizzazione delle esperienze e la piena assunzione di responsabilità. Una mobilitazione che il mondo accademico ha iniziato a mettere in campo, un po’ spontaneamente e un po’ sotto la spinta di energie positive della stessa società civile e dell’Agenzia di valutazione che ha concorso a fornire stimoli in questa fase storica. Per noi è stata una sfida, perché si è trattato di individuare i criteri di valutazione della terza missione in assenza di regole. È un modello che certamente va perfezionato, un punto di partenza da far evolvere. L’intento è quello di dare valore ai valori».

«Siamo partiti– ha spiegato Blasi – dalla mappatura delle attività svolte dalle università e dagli enti valutati. Ci siamo basati su una metodologia quali-quantitativa che ha cercato di fare un focus sulle otto aree di terza missione prese singolarmente. Strada facendo sono emersi temi nuovi: l’ambiente, la sostenibilità, l’inclusione (disabilità, lotta alle disuguaglianze, povertà), l’Open science. Anche in ambito internazionale ci si è spostati da un’idea di trasferimento lineare del sapere esperto all’idea di coproduzione e collaborazione con consumatori, clienti e cittadini. Un approccio più centrato sull’utente, sistemico e aperto. Sono state definite dieci aree d’impatto, di cui tre di nuovo inserimento: strumenti di policy per l’inclusione, Open science e obiettivi di sviluppo sostenibile».

«Dovremmo cambiare nome perché, quando si parla di terza missione, sembra di parlare degli ultimi, è decisamente riduttivo rispetto a quanto fanno le università», ha puntualizzato il professor Longhi, ricevendo il plauso convinto di tutti i partecipanti. «Forse i 676 casi studio (dipartimenti ed enti di ricerca) sono pochi, per poter fare una fotografia più attendibile. Molto dipende dall’organizzazione di ciascun ateneo. È emerso che il public engagement (l’insieme di attività con valore educativo, culturale e di sviluppo della società che ogni università intraprende, ndr) è stato raggiunto in circa il 33% dei casi ed è un campo d’azione scelto prevalentemente dagli enti di ricerca. L’Open science, di recente introduzione, si assesta appena all’1%».

Sandra Romagnosi, dell’Unità Terza missione dell’Anvur, ha poi precisato che «sono stati 134 gli atenei e gli enti di ricerca presi in esame. Quasi il 10% dei casi studio riguarda le Scienze biologiche, seguite da Ingegneria industriale e Informatica (8,5%), Scienze medice (7,7%), Scienze fisiche (7,4%), Scienze politiche e sociali (7,2%), sino ad arrivare alle Scienze matematiche (3,7%)».

Nella seconda parte dell’evento sono stati ascoltati i punti di vista dei rappresentanti dei principali partner delle università (istituzioni pubbliche, imprese, organizzazioni sociali). Gaetano Fulvio Esposito, direttore generale del Centro studi delle Camere di commercio “Guglielmo Tagliacarne”, si è complimentato per «il salto qualitativo introdotto in questa valutazione, resa così più attuale e rispondente alla realtà. È auspicabile che la Terza missione evidenzi il ruolo di collaborazione della società civile con le università. Il 58% delle imprese che fanno open innovation ha fatto anche un investimento nel welfare aziendale, a fronte del 38% (che pure è un dato rilevante) di imprese che non fanno open innovation. Ancora: il 38% delle imprese che fanno open innovation ha fatto investimenti a favore del territorio o della comunità in cui operano, a fronte di un 18% delle altre imprese. Analogamente, il 35% delle aziende della prima tipologia collaborano con gli enti del Terzo settore (contro il 19%), mentre il 57% ha affrontato il tema degli investimenti di sostenibilità ambientale rispetto al 36% delle imprese che non fanno open innovation. Le imprese che fanno open innovation reagiscono meglio ai cambiamenti, così forti in questo periodo».

Susanna Marietti (Associazione Antigone), Antonio Naddeo (presidente dell’Aran), Raffaele Trapasso (Ocse), Pietro Hiram Guzzi (sindaco di Miglierina e rappresentante dell’Anci), Fulvio Esposito (Università di Camerino), Caterina Falbo (Università di Trieste), Lelio Lapadre (Università dell’Aquila) e Francesca Spigarelli (Università di Macerata) hanno chiuso il giro di interventi in programma, che possono essere visti nel video cui si accede attraverso questo link. In conclusione dei lavori, si è aperto un dibattito al quale hanno preso parte numerosi rappresentanti degli atenei italiani.


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