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Cooperazione & Relazioni internazionali

Pensieri sparsi sui 50 anni d’indipendenza africana

di Giulio Albanese

Sono appena rientrato da un viaggio in Kenya e in Uganda. La sensazione è che l’Africa sia sempre di più un continente giovane, sia nelle città come Nairobi o Kampala che crescono a dismisura di giorno in giorno, come anche nelle zone rurali, ad esempio nel vasto territorio Acholi del Nord Uganda. D’altronde coloro che hanno meno di 25 anni, secondo i dati ufficiali, rappresentano il 60% della popolazione africana. E le nuove generazioni devono misurarsi con un mare magnum di problemi, primo fra tutti quello della disoccupazione. A questo proposito, lo scenario economico del continente non è confortante, considerando soprattutto la difficile congiuntura che interessa le piazze finanziarie di mezzo mondo. Un fenomeno che di riflesso penalizza fortemente l’Africa, comportando drastici tagli, da parte dei donatori internazionali, ai fondi destinati alla cooperazione; oltre al fatto che i conti pubblici sono a rischio, mentre la spesa pubblica diminuisce. Per carità, gli investimenti stranieri in Africa non mancano, cinesi in primis. Anche se poi il fenomeno dell’accaparramento della terra – in gergo tecnico “land grabbing” – da parte di società private, fondi di investimento e governi stranieri equivale ad una vera e propria svendita delle immense risorse naturali del continente, soprattutto dal punto di vista agricolo e minerario. A ciò si aggiunga la debolezza delle classi dirigenti il cui operato, purtroppo, lascia ancora molto a desiderare. Basti pensare al presidente ugandese Yoweri Museveni che dal gennaio 1986 continua a fare il bello e il cattivo tempo, con la sola preoccupazione di mantenere il potere “sine die” per salvaguardare interessi dal forte sapore nepotistico. Lo stesso vale per il governo di coalizione nazionale keniano. In questo caso maggioranza e opposizione si stanno spartendo con grande disinvoltura la ricchezza nazionale, acuendo i disservizi e penalizzando la “res publica”.  Intanto proprio in questi giorni, per l’ennesima volta, il premier etiopico Meles Zenawi si è riconfermato alla guida del suo Paese, nonostante le accuse di brogli elettorali da parte dell’opposizione e di organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani. 

E dire che sono trascorsi 47 anni da quando nacque l’Organizzazione per l’Unità Africana (Oua). Un’istituzione che intendeva esprimere idealmente i sogni e le attese dei grandi fautori del panafricanesimo – per intenderci, presidenti del calibro di Kwame N’krumah (Ghana), Léopold Sédar Senghor (Senegal) o Julius Nyerere ( Tanzania) – segnando la svolta rispetto al passato coloniale. Il continente allora, nel maggio del 1963, stava attraversando l’agognata stagione del riscatto da quella che i “maître à penser” della negritude definivano l’onta dell’imperialismo di matrice europea. Eppure, oggi l’Africa, nonostante l’avvento dell’Unione Africana (Ua) nel 2002, continua a rappresentare il fanalino di coda nel contesto dello sviluppo planetario. Basti pensare alla drammatica situazione in cui versa il Corno d’Africa dove si consumano le più gravi crisi umanitarie del nostro Pianeta: in Somalia e nella regione sudanese del Darfur. Per non parlare della “guerra fredda” tra Etiopia e Eritrea, come anche dei fragilissimi equilibri nella Regione dei Grandi Laghi, in particolare sul versante Orientale della Repubblica democratica del Congo. E come se non bastasse, con accentuazioni diverse, desta preoccupazione la crisi economica e sociale in cui versa lo Zimbabwe. E cosa dire del malessere che affligge la Nigeria in cui si acuiscono le rivalità etniche e religiose per la debolezza strutturale di una classe dirigente incapace di gestire il lucroso business del petrolio? E, come se non bastasse, il neo presidente sudafricano Jacob Zuma sembra non essere all’altezza di moderare quei già difficili equilibri sociali che le presidenze di Nelson Mandela e Thabo Mbeki erano riuscite quantomeno a regolare evitando lo scontro razziale.

Pur apprezzando la straordinaria vitalità di tanta società civile africana che un po’ ovunque s’è mobilitata per affermare il diritto di cittadinanza a livello continentale, il cammino è davvero ancora tutto in salita. I padri dell’indipendenza africana avevano posto l’unità continentale come “conditio sine qua non” per un’Africa protagonista sulla scena mondiale. Un obiettivo allora incentrato su due presupposti: il principio di “non ingerenza” negli affari interni dei singoli Stati e “l’intangibilità delle frontiere”. Riguardo alla non ingerenza, la nascita dell’Ua ha certamente rappresentato un superamento, almeno in linea di principio, di questo assioma, mentre sulla questione dei confini l’orientamento è sempre incentrato sul mantenimento della geografia coloniale. Ecco perché, ad esempio, sono molte le incognite che pesano sul prossimo referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan in programma nel 2011. E se da una parte è vero che l’Africa è ormai divenuta la linea di faglia tra Oriente e Occidente – non solo per le infiltrazioni del jihadismo in alcuni Paesi, ma anche perché rappresenta un’irrinunciabile fonte energetica per Cina e Stati Uniti – dall’altra, s’impone l’esigenza di costruire il futuro su solide basi. Superando ad esempio l’impasse dell’etnicismo e in particolare dello “Stato-Nazione” così com’è stato postulato dallo storico inglese Basil Davidson (The Black Man’s Burden: Africa and the Curse of the Nation-State, Knopf, New York 1992), vale a dire una forma istituzionale di imitazione occidentale che si traduce in governi personali e autocratici fondati sul nepotismo e la corruzione esercitati a favore di una o più componenti etniche della popolazione contro le altre. Ecco perché trovo davvero profetico il messaggio finale del recente Sinodo africano: “L’Africa ha bisogno di politici santi che combattano la corruzione e lavorino al bene comune”. Perché l’Africa, poliedrico contenitore di culture ancestrali, non è affatto un continente povero, semmai impoverito dalla bramosia delle oligarchie locali e dei potentati stranieri che la considerano, ancora oggi, una terra di conquista. Quest’anno – è bene ricordarlo – un terzo dei Paesi africani celebrano i 50 anni d’indipendenza. C’è da augurarsi che sia un’occasione per avviare il cambiamento, prima che sia troppo tardi.


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