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Economia & Impresa sociale 

Adozioni internazionali: il supporto serve dopo, non prima

di Marcello Esposito

Si discute molto di adozione internazionale e di come lo Stato possa alleviare i costi associati ad essa. Se ne è parlato anche durante la visita di Matteo alla redazione di Vita. Si afferma, ed è vero, che questa è l’unica forma di genitorialità a pagamento. Si afferma, ed è vero, che il costo è considerevole, soprattutto se l’adozione avviene in paesi lontani dove bisogna risiedere per parecchie settimane, se non mesi. Eppure, in base alla mia esperienza personale, se c’è una fase dove bisognerebbe investire risorse pubbliche non è in quella che precede l’adozione ma in quella successiva.

Per ragioni storiche e per evitare il caos e gli abusi che esistevano in passato, tutto il nostro sistema è incentrato sulla fase pre-adottiva.  Ma per creare una famiglia non è sufficiente selezionare i futuri genitori e trovare i bambini. La vera adozione inizia quando si torna a casa, quando si deve costruire il rapporto genitori-figli in mezzo a mille difficoltà.

Se ci limitiamo alla questione economica, la fase pre-adottiva comincia a costare in maniera rilevante solo quando ci si reca all’estero per adottare i bambini. Ma, in un certo senso, è un costo che si mette in conto e che non è poi così diverso dalla spesa che si sarebbe in ogni caso sostenuta avendo figli naturali e crescendoli fino all’età dei propri figli adottivi. Nel mio caso, avendone adottati tre di cui il più piccolo aveva 6 anni, avrei speso molto di più per crescerli fino a quella età in Italia che non nei due mesi che ho trascorso in Brasile.

Tra l’altro, se si ha la fortuna di adottare in un paese dove sono presenti le missioni cattoliche, l’esperienza dell’adozione può diventare un momento di cambiamento totale, una sorta di battesimo al mondo, persino per uno come me che non è religioso. La nostra famiglia ad esempio è nata a Belem, nella Casa da Crianca, in una scuola-convento-casa dove un gruppo di suore missionarie gestisce una scuola e dove negli anni si sono formate tante nuove famiglie italiane. Insomma, un convento alla Papa Bergoglio, dall’altra parte del mondo, dove se parli con una suora non sai mai se stai parlando con Chico Mendez o con Che Guevara. Abbiamo vissuto lì per due mesi, condividendo cibo, esperienze, guardato tutti insieme televisione, ascoltato musica, ballato, giocato a carte….  Le suore ci hanno portato con loro quando andavano a festeggiare e ci hanno aiutato con i bambini quando si accorgevano che avevamo qualche difficoltà. Hanno consentito ai nostri bambini di andare a scuola da loro, senza registrarli (! Immaginate se provate a chiedere ad una scuola italiana di fare entrare un nuovo bambino in classe, così, senza iscriverlo!).

Tornando al problema dei “costi” ed escludendo i soliti casi particolari dove si può pensare ad interventi di sostegno ad –hoc (pensiamo ad esempio al caso dei futuri genitori che perdono il lavoro nel bel mezzo del processo di adozione), ritengo giusto programmare anche economicamente la genitorialità. E’ un segno di maturità che magari non è richiesto ai genitori “naturali” ma che reputerei educativo per tutti.

Il vero problema delle adozioni è al rientro in Italia, quando la nuova famiglia si trova abbandonata a se stessa, nella confusione più totale. Sicuramente i vostri bambini hanno “problemi” (ambientamento, ritardi cognitivi, disturbi del comportamento, salute) e voi dovete risolverglieli mentre cercate di superare i vostri. Non c’è stato tempo di crescere insieme, non avete esperienza e non siete in grado di interpretare tutti i segnali.

Poi c’è la scuola. Eh già, perché le coppie italiane che adottano sono sempre più anziane e quindi i bambini sono spesso grandicelli, in età scolare.  Non esistono protocolli per l’accoglienza a scuola di bambini stranieri o adottati. Non pensate che la maestra sia in grado di seguire vostro figlio. E’ fisicamente impossibile e non sarebbe neanche giusto nei confronti del resto della classe. Sarebbe necessario un periodo di sostegno individuale per tutti, fosse anche solo per la lingua e per accertarsi dello stato delle conoscenze effettive. I bambini “istituzionalizzati” spesso sono analfabeti e con problemi cognitivi o comportamentali. E, invece, ci vuole circa un annetto solo per ottenere la prima visita neuropsichiatrica (indispensabile per richiedere il sostegno scolastico) e diversi altri mesi per avere una diagnosi. Inoltre, se si rientra in Italia ad anno scolastico iniziato, i tempi si dilatano ulteriormente e bisogna quindi fare i salti mortali per far pervenire in tempo la diagnosi funzionale alla scuola, altrimenti si ritarda di un altro anno. Quindi, per due anni vostro figlio, se ha problemi cognitivi, rischia di fare poco o nulla a scuola. Immaginate cosa significano due anni per un bambino, quando le mamme si preoccupano perché il figlio malato ha saltato una settimana di scuola.

E se i vostri bambini hanno problemi di salute? Non solo non avete una loro storia clinica, non solo non conoscete i loro genitori, ma non avete nemmeno la minima idea di chi sia in grado di riconoscere, per non dire curare (a Milano, figuriamoci in altre zone di Italia) certi tipi di parassiti o di malattie “esotiche”.

In conclusione, il processo sociale, psicologico ed affettivo dell’adozione inizia proprio quando le procedure attuali presumono che finisca. Pertanto, se ci sono vincoli di bilancio, piuttosto che aiutare le coppie finanziariamente a sostenere le spese vive della fase pre-adottiva, sarebbe molto meglio che lo Stato dedicasse le risorse finanziarie a risolvere alcuni dei problemi che abbiamo appena descritto. Potenziando quindi il numero degli insegnanti di sostegno e dei mediatori culturali. Prevedendo una distribuzione capillare su tutto il territorio nazionale di equipe di neuropsichiatria e psicologia infantile con un numero adeguato di operatori. Tutti servizi di cui beneficerebbero anche gli altri bambini italiani con difficoltà e i figli di un’Italia sempre più multi-etnica e multi-culturale.


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