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Questo Papa anticlericale

di Giuseppe Frangi

 

Questo è un Papa che non lascia mai le cose com’erano. Anche nel viaggio in Corea appena concluso è riuscito a rompere gli schemi e a proporre continue aperture e suggerimenti per nuovi percorsi, dal rapporto con i paesi comunisti al tema dello sviluppo di una società ricca, dalla povertà al ruolo dei laici. Il tutto con la consueta capacità di inventare formule verbali di grande efficacia. Ecco una sintesi per parole chiave.

Clericalismo. È una delle chiavi del viaggio. Il Papa è venuto in Corea incontro ad una chiesa nata per impulso di semplici laici e non per azione di missionari. Un caso unico nella “geografia” del cattolicesimo.

«Questi non avevano la tentazione del clericalismo: erano laici, andavano avanti da soli! È significativo che la storia della Chiesa in Corea abbia avuto inizio da un incontro diretto con la Parola di Dio. È stata la bellezza intrinseca e l’integrità del messaggio cristiano – il Vangelo e il suo appello alla conversione, al rinnovamento interiore e a una vita di carità – ad impressionare Yi Byeok e i nobili anziani della prima generazione; ed è a quel messaggio, alla sua purezza, che la Chiesa in Corea guarda come in uno specchio, per scoprire autenticamente sé stessa».

La teologia della prosperità. È quella delle chiese ricche, borghesi. Il rischio di essere Chiesa della prosperità.

«…Chiese benestanti per i benestanti. Non si cacciano via i poveri ma si vive in modo tale che loro non osino entrare, non si sentano a casa loro. Questa è una tentazione della prosperità. Io non vi rimprovero, perché so che voi lavorate bene. Ma come fratello che deve confermare nella fede i suoi fratelli, vi dico: state attenti, perché la vostra è una Chiesa in prosperità, è una grande Chiesa missionaria, è una grande Chiesa. Il diavolo non semini questa zizzania, questa tentazione di togliere i poveri dalla struttura profetica stessa della Chiesa, e vi faccia diventare una Chiesa benestante per i benestanti, una Chiesa del benessere… non dico fino ad arrivare alla ‘teologia della prosperità’, no, ma nella mediocrità».

Povertà. Non è una categoria sociologica, ma innanzitutto umana. Come ha detto nell’incontro con i religiosi.

« Nella vita consacrata la povertà è sia un “muro” che una “madre”. È un “muro” perché protegge la vita consacrata, è una “madre” perché la aiuta a crescere e la conduce nel giusto cammino. L’ipocrisia di quegli uomini e donne consacrati che professano il voto di povertà e tuttavia vivono da ricchi, ferisce le anime dei fedeli e danneggia la Chiesa».

Empatia. Ci vuole consapevolezza della propria identità, ma questa non serve se non sviluppa anche un’empatia verso gli altri, aldilà delle appartenenze.

«Perché ci sia dialogo, dev’esserci questa empatia. La sfida che ci si pone è quella di non limitarci al ascoltare le parole che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non detta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle loro aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore. Tale empatia dev’essere frutto del nostro sguardo spirituale e dell’esperienza personale, che ci porta a vedere gli altri come fratelli e sorelle, ad “ascoltare”, attraverso e al di là delle loro parole e azioni, ciò che i loro cuori desiderano comunicare. In questo senso, il dialogo richiede da noi un autentico spirito “contemplativo”: spirito contemplativo di apertura e di accoglienza dell’altro. Io non posso dialogare se sono chiuso all’altro».

Comunismo. Non ha tenuto sotto il tappeto neanche la grande questione del rapporto tra la chiesa e i paesi comunisti che confinano con la Corea. Lo ha detto a  braccio nell’ultimo incontro, facendo prevalere il fattore umano su quello politico.

«…spero fermamente che i Paesi del vostro Continente con i quali la Santa Sede non ha ancora una relazione piena non esiteranno a promuovere un dialogo a beneficio di tutti. Non mi riferisco soltanto al dialogo politico, ma al dialogo fraterno… “Ma questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi”. E il Signore farà la grazia: talvolta muoverà i cuori, qualcuno chiederà il battesimo, altre volte no. Ma sempre camminiamo insieme. Questo è il nocciolo del dialogo».

Consolazione. Un incontro fuori programma quello con la piccola comunità dei gesuiti. È stata l’occasione per arrivare a una sotolineatura carica di grande affezione verso la condizione degli uomini di oggi.

«Il popolo di Dio necessita consolazione, di essere consolato, il consuelo. Io penso che la Chiesa sia un ospedale da campo in questo momento. Il popolo di Dio ci chiede di essere consolato. Tante ferite, tante ferite che hanno bisogno di consolazione… Dobbiamo ascoltare la parola di Isaia: Consolate, consolate il mio popolo! Non ci sono ferite che non possono essere consolate dall’amore di Dio. Noi in tal maniera dobbiamo vivere: cercando Gesù Cristo in modo da portare questo amore a consolare le ferite, a curare le ferite».

Il padre del figliol prodigo. Infine questo pensiero dopo aver assistito alla messa in scena in forma di musical della parabola del Figliol Prodigo.

«…ci dice il Vangelo che il padre lo ha visto da lontano. E perché lo ha visto? Perché tutti i giorni saliva sul terrazzo per vedere se tornava il figlio. E lo ha abbracciato: non lo ha lasciato parlare; non lo ha lasciato dire quel discorso e neppure chiedere perdono, lo ha lasciato in seguito… e ha fatto festa. Ha fatto festa! E questa è la festa che piace a Dio: quando noi torniamo a casa, torniamo da Lui».


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