Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Sanità & Ricerca

L’Aids mi ha insegnato che cos’è la libertà

Maurizio vive attaccato a una flebo e ha già rischiato di morire quattro volte. Eppure proprio dopo il contagio ha scoperto la felicità.

di Gabriella Meroni

La stanza di Maurizio Trombi, adesso, è tutta la sua casa. In mezzo c’è il letto, attorno le foto dei nipoti, degli amici, delle vacanze. Sopra il cuscino, un rosario. Accanto al letto, un tavolino colmo di medicinali, e poco più in là una flebo appesa al suo albero metallico. Qui ogni giorno Alberto, il suo amico infermiere, arriva per le terapie contro l’Aids: Maurizio soffre di due infezioni all?apparato digerente, conseguenti al sarcoma di Kaposi e al citomegalovirus da cui è affetto. Ha rischiato di morire quattro volte negli ultimi due anni, è lui stesso a dirlo, anche se adesso si sente meglio: le terapie fanno effetto, dieci anni di malattia non sembrano aver lasciato tracce sul suo viso, che dimostra molto meno dei suoi 36 anni. Dalla sua stanza Maurizio – ex dirigente in una clinica di Milano – vede i palazzoni squadrati e scialbi del quartiere dove è nato, e da dove era fuggito per lasciarsi alle spalle una realtà che non sentiva più sua. Adesso è tornato, e non gli sembra ancora possibile. Come quasi impossibile suona la sua storia, che in dieci anni l’ha portato dalla disperazione, di quando era sano, alla felicità di oggi, nonostante l’Aids. Lunedì 1° dicembre si celebra la giornata mondiale per la lotta contro l’Aids. E anche se per Maurizio sarà un giorno come gli altri, scandito dalle gocce che cadono ritmicamente dalla flebo nel tubo e da qui nel suo braccio, noi la vogliamo celebrare con lui. «La malattia rende cattivi», dice con voce chiara e ferma. «Specialmente se è lunga e incurabile. Come la mia. A meno che non si riesca a condividerla con qualcuno. Con gli amici. Ma anche con qualcun altro». Questo qualcun altro Maurizio l’ha trovato, o ritrovato, nella fede. Quella imparata da bambino e poi accantonata, perché – sono parole sue – «non si conciliava con me». «Da ragazzino ero affascinato da come vivevano la fede alcuni ragazzi della mia parrocchia», racconta. «Così mi ero unito a loro, frequentavo l’oratorio. Ma proprio in quegli anni qualcosa offuscò questa esperienza: mi resi conto che mi piacevano gli uomini. Irrimediabilmente. Provai imbarazzo e scelsi la strada peggiore: fingere, sistematicamente, con tutti. Vivevo come uno schizofrenico. In parrocchia, a scuola avevo la faccia del ragazzo irreprensibile, la domenica diventavo un altro. Andavo a caccia di avventure, tra gente strana, che non stimavo, ma di cui non potevo fare a meno. A 23 anni andai via di casa, per vivere come volevo. Cominciai a lavorare, ma il mio disagio aumentava: non avevo più soltanto due facce, cominciai a costruirmene molte altre. In ufficio ero il manager professionale, con la famiglia il figlio ideale, con certi amici un certo Maurizio, con altri un altro… Finché non ce l’ho fatta più». Maurizio affronta una terapia da uno psicologo che lo aiuta ad accettarsi di più. «Decisi di lasciar perdere gli orpelli di cui era piena la mia vita. Le avventure, innanzitutto. Presi in mano le redini della mia vita. E proprio allora fui sorpreso dal primo avvenimento decisivo per me: la scoperta di essere sieropositivo». Il contagio, probabilmente, da una persona con cui Maurizio aveva avuto una lunga relazione, fino al 1986, e che era poi morta di Aids. «Appena la dottoressa me lo comunicò, freddamente, non pensai a niente. Poi uscii dallo studio e mi infilai nella cappella dell’ospedale. Dissi una preghiera e versai l’unica lacrima che abbia mai pianto sulla mia malattia. Poi, da lì, la svolta. Mi resi conto che la mia vita non dipendeva da me. Sarei morto da lì a pochi anni e non potevo farci niente». Maurizio decide di curarsi. Va all’ospedale Niguarda, dove incontra alcuni vecchi amici. Ma i loro discorsi sulla fede non vuole sentirli. «Ero terrorizzato di ricadere nelle antiche nevrosi, nelle mie condizioni sapevo che ne sarei uscito a pezzi. Poi un’amica medico mi ha detto: devi pensare a curarti, e noi possiamo farlo. Lascia perdere il resto e vieni. Ho fatto così. E un giorno, mentre raccontavo la mia storia a un’altra amica, Assunta, è successo il secondo fatto decisivo: mi sono messo a piangere. A dirotto. Pensavo al mio passato, e non riuscivo a fare altro. Assunta si è alzata e mi ha abbracciato. Allora ho capito. In quel momento lei per me rappresentava Cristo, che mi abbracciava. C’era solo Lui e nessun altro: le mie paure, i miei rimorsi, le mie angosce, il giudizio della gente non contavano più. C?era qualcuno che mi abbracciava, così com?ero, così pieno di guai. Da lì per me è cominciata un’altra vita». Una vita dove Maurizio non si nasconde più. Così matura la decisione di entrare in un ordine religioso laicale, i Memores Domini. È la fine del 1995: decide di parlare con i suoi genitori, che conoscevano un Maurizio diverso. Per farsi amare anche così. «È stato un cataclisma, all’inizio. Una bomba nucleare. Mio padre è andato in pezzi come un vaso di cristallo. Ma perché?, mi ha chiesto. Non c’è un motivo. È successo e basta. Ma adesso ho costruito con lui un rapporto che prima non esisteva». Oggi Maurizio si prepara a concretizzare la sua scelta vocazionale. Ma si arrabbia se lo additano come un santo. «Niente altarini», ride. «Dovevo solo restituire al Signore quel che mi ha dato. Ringraziarlo. Perciò gli dono me stesso». Ringraziarlo anche per l’Aids? «Sì. Ora che le mie facce si sono ricomposte in una sola, questa faccia non la cambierei con nessun’altra. E rifarei tutto quello che ho fatto in passato, se servisse ad arrivare fin qui». Cosa diresti a un malato di Aids senza speranza? «Gli direi: prega con me. Anche se sei ateo, se non ci credi. L?anno scorso ho conosciuto Francesco, ricoverato di fianco a me. Lui non credeva, ma vedeva me che pregavo e un giorno mi ha detto: senti, io non ci credo, ma potresti pregare anche per me? Ecco, basta così. Francesco non c?è più, ma sono sicuro che ora è in paradiso».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA