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Cooperazione & Relazioni internazionali

La forza di Obama

Come ha fatto il senatore nero a ribaltare i pronostici che lo davano senza chance? Ha conquistato la fiducia dei moderati.

di Fabrizio Tonello

Il 68 diede il diritto di voto ai giovani americani che compivano 18 anni e le elezioni presidenziali del 1972 furono le prime in cui essi poterono esercitare questo diritto. Quell?anno votò il 52% dei cittadini fra i 18 e i 24 anni. Nel 2000, quel diritto di voto così prezioso e faticosamente conquistato fu esercitato solo dal 36% dei giovani, poco più di un terzo, molto meno della media dell?elettorato e in particolare del voto degli ultrasessantenni, due terzi dei quali si preoccupavano di andare a infilare la loro scheda nell?urna.Da allora, la partecipazione giovanile – stimolata dalle politiche bellicose dell?amministrazione Bush – ha ricominciato ad aumentare e nel 2004 votò il 46% dei giovani, ben dieci punti percentuali in più. Quest?anno, dicono gli esperti, potrebbero andare a votare più del 50% degli aventi diritto fra i 18 e i 24 anni, battendo il record del 1972.

Voti cruciali
Non si tratta di una discussione puramente accademica: il ?fenomeno Obama?, cioè le migliaia di volontari che hanno contribuito ai successi della sua campagna elettorale nelle primarie, si regge soprattutto sui giovani e viene interpretato da molti giornali come una promessa di vittoria sicura per i democratici anche in novembre. Le cose sono però più complicate di quanto sembrino.Se guardiamo alla partecipazione dei giovani in queste primarie di cui i mass media hanno dato un?immagine così ?oceanica?, troviamo in realtà delle cifre piuttosto deludenti. Per esempio, in Alabama ha votato il 19% dei giovani fino ai 29 anni, contro il 36% di chi ne aveva più di 30. In Arizona ha votato appena il 7%, contro il 25% degli altri elettori, in California il 17% contro il 32% degli adulti. Solo in New Hampshire troviamo una partecipazione significativa dei giovani, il 43%, abbastanza vicina ma comunque inferiore al 55% del resto del corpo elettorale (e, fra l?altro, in New Hampshire ha vinto Hillary Clinton e non Obama).Le cifre raccolte dal Centro studi Circle vanno tutte nella medesima direzione: quest?anno i giovani sono più mobilitati del solito ma restano comunque una componente minoritaria dell?elettorato: fra il 7 e il 14% in media. Molto se la competizione avviene in ristrette assemblee di simpatizzanti (i caucus) con qualche migliaio di persone, poco se si deve vincere un?elezione a cui partecipano oltre 100 milioni di americani.Hillary e Obama rappresentano due segmenti diversi ma numericamente equivalenti dell?elettorato democratico: uno più ?professionale-progressista-alto reddito? (che vota Obama) e uno più ?femminile-povero-conservatore? che vota Hillary. Per la prima volta, queste due subcoalizioni si cristallizzano durante le primarie attorno a candidati alternativi, e questo comporta seri rischi di rottura nel partito e nell?elettorato. Una candidatura Hillary farebbe cadere gran parte dell?entusiasmo giovanile mobilitato per Obama in queste primarie, ma una candidatura Obama darebbe all?elettorato operaio e alle donne a basso reddito la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata nel partito democratico. Nell?ultimo sondaggio del Pew Research Center si vede chiaramente che una larga maggioranza dei democratici a basso reddito (sotto i 40mila dollari annui lordi, cioè circa 1.500 euro netti al mese) sostiene Hillary: è il 55%, contro il 35% di Obama, e questa percentuale tende ad aumentare leggermente, non a diminuire.

L?asso di Hillary
Nella corsa per la presidenza, il vero asso nella manica di Hillary non è il marito Bill, o il sostegno dell?apparato, ma la fedeltà che le dimostrano gli americani meno fortunati.Sotto un altro aspetto, Hillary e Obama rappresentano anche due strategie elettorali differenti: gli strateghi clintoniani partono dalla constatazione che l?America è fortemente polarizzata sul piano politico, e geograficamente divisa in due, con le coste e le città che votano democratico, il Sud, l?Ovest e le campagne che votano repubblicano. Occorre quindi concentrare gli sforzi sui pochi Stati incerti (meno di una decina) perché il meccanismo del collegio elettorale permette di vincere anche avendo gli stessi voti, o meno voti, dell?avversario. Per esempio, nel 2004, perfino un mediocre candidato come John Kerry rischiò di vincere per l?incertezza del risultato in Ohio: se avesse avuto appena 120mila voti in più lì (su oltre 5,5 milioni) sarebbe diventato presidente.Il ragionamento di Hillary e dei suoi collaboratori è quindi che non ha nessuna importanza se i tradizionali elettori repubblicani del Sud vanno a votare in massa contro di lei: l?importante è rassicurare l?elettorato democratico tradizionale e conquistare alcuni gruppi importanti, come gli ispanici, negli Stati dove la differenza di consensi fra i due partiti è di poche migliaia di voti su alcuni milioni di elettori. Per esempio, se il candidato del partito riuscisse quest?anno a tenere tutti gli Stati conquistati da Kerry quattro anni fa e ad aggiungervi New Mexico, Colorado e Nevada potrebbe fare a meno anche dell?Ohio ed entrare alla Casa Bianca, sia pure con una maggioranza risicatissima.

La strategia di Obama
I collaboratori di Obama partono da un?idea diversa, ispirata da Howard Dean, che nel 2004 rappresentò il candidato dei giovani e della sinistra del partito. L?idea è che non si deve rinunciare a nessuno Stato, a nessuna contea, perché i democratici possono vincere ovunque, se hanno dei candidati capaci di parlare anche agli elettori indipendenti, o addirittura ai repubblicani. Dean, ora energico presidente del Comitato nazionale democratico, ha quindi sostenuto una strategia ?50 States?, cioè un tentativo di entrare anche nelle roccaforti repubblicane del Sud e dell?Ovest. Questa strategia, che nel lungo termine è l?unica vincente, si basa però sulla chiarezza culturale e politica di un nuovo discorso progressista che forse non è ancora maturo: Obama parla un linguaggio diverso, più soft (e anche più vago), si presenta come ?uomo del cambiamento? e non esita a riconoscere (piuttosto opportunisticamente) i meriti di Ronald Reagan ma non ha, fino ad ora, messo in campo idee forti, proposte veramente nuove. È vero che agli elettori indipendenti (quelli che non si considerano né democratici né repubblicani) piace più della Clinton ma non è detto che piaccia ?negli Stati giusti?, che sono poi quelli con un forte elettorato ispanico (negli Stati del Sud con un forte elettorato afroamericano i democratici hanno comunque poche possibilità rispetto alle maggioranze repubblicane). Se Obama dovesse conquistare la nomination, i sondaggi che lo danno in vantaggio su McCain conteranno poco: nelle urne si sa che i candidati di colore perdono sempre alcuni punti rispetto alle previsioni, quindi Obama dovrebbe essere accreditato almeno del 53% per avere, nella realtà, il 50,1%. Può darsi che il giovane e carismatico senatore dell?Illinois porti al voto molti giovani che altrimenti non voterebbero ma, di nuovo, è un problema di geografia elettorale: i voti degli universitari del Connecticut e del Massachusetts non servono, occorrono i voti dei ventenni del West Virginia, dell?Ohio, del Wisconsin, dell?Iowa, del New Mexico.Se Hillary resterà in corsa, la scelta finale della convenzione di Denver dipenderà da valutazioni degli esperti sulle due strategie, cioè su chi dei due sarà meglio in grado di competere con John McCain negli Stati-chiave.


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