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La leggenda del Barone Nero.

di Jacopo Guerriero

 

 

Hugo Pratt lo regalò alla «cultura sottile».  Ovvero: lo spazio senza tempo dove si incontrano storie, figure, personificazioni cui l’industria culturale (dal cinema al fumetto) torna (ritorna) per sempre.

Erano le tavole di Corte sconta detta Arcana (1974), romanzo a fumetti:  già  in quelle pagine Roman von Ungern Sternberg, controeroe, controrivoluzionario,  generale ritratto in guanti bianchi, occhi cerchiati, ammazzava, trucidava «alla ricerca di follie e glorie». Nell’estremo Oriente siberiano,  il suo tempo: tra il  1918 e il 1921, dopo la Rivoluzione d’Ottobre.  La sua parabola di condottiero destinata a evolversi in leggenda.

In Francia,  lo scrittore e giornalista russo, comunista ortodosso, Vladimir Pozner, consigliato da Blaise Cendrars – uno che di avventura e d’immaginazione ne capiva eccome, gli aveva dedicato una biografia romanzata che ora esce nel nostro paese – Il barone sanguinario (Adelphi, 320 pp.,  22 euro;  a cura di Valeria Perrucci, traduzione di Lorenza di Lella, Giuseppe Girimonti Greco). All’inizio quasi un meta romanzo, una narrazione in fieri –l’autore alle prese con testimoni e ricerche, nobiltà decaduta, soldati sconfitti poco desiderosi di ricordare .

Poi, come nelle tavole di Pratt, sulle tracce della Storia che pure c’entra e non c’entra,  è solo sfondo.  Anche in queste pagine, infatti, soltanto nel complesso si coglie l’affresco di questo Signore della Guerra, antisemita, anticomunista e torturatore, ritratto in mille leggende nere, che dopo la Rivoluzione  scelse di resistere ai bolscevichi alla testa di cinquemila tra soldati mongoli e cosacchi, improvvisati guerrieri delle tribù buriate. Che restaurò in Mongolia una teocrazia, sconfiggendo a Urga gli invasori cinesi e riportando sul trono il Buddha vivente, il kutukhtu appoggiato dal Giappone imperiale («un vecchio sifilitico» che gli piaceva manovrare).  Condottiero che alle divisioni di Stalin – egli si pensava e dai buddhisti viene tutt’ora riconosciuto come la reincarnazione di Gengis Khan-  intendeva opporsi con la cavalleria. Assaltando treni e terrorizzando i partigiani rossi – si distingueva per l’efferatezza delle sue azioni di guerriglia ed è ricordato tra i più originali inventori di supplizi.

Allora forse sì, in effetti la Storia è troppo, troppo anche da raccontare, bastano gli accenni per questa biografia densa e tutta novecentesca che nel libro passa per una scrittura – sapiente, che guarda al cinema- e si serve di tanto «fantastico sociale». Godimento vero,  leggersi queste pagine che restituiscono il brivido dei primi libri d’avventura. Quelli dell’infanzia, di esploratori e di racconti sull’oro delle Indie, capaci di regalarti il mito che, scriveva Manganelli, se ti arriva da bambino poi è per sempre.

C’era una volta il timore di Kublai Khan. L’amore per il suo giardino, la storia di una prigionia e la magia dei palazzi colorati, dei sogni grandi di una notte. Marco Polo raccontava, Rustichello scriveva. Al lettore il gusto per l’esperienza del viaggio, l’ignoto a est di Bisanzio. Qui, nelle pagine belle di Pozner,  rivive qualcosa di quella malia che è come l’infanzia, inafferrabile e sacra.  Nella narrazione delle marce, nelle notti trascorse dal Barone a interrogare gli oracoli, nella memoria di una guerra tra le più sanguinose e destinata a segnare epiche e leggende che mai saranno condivise.

Ecco, scivola nel piacere per il gioco dell’immaginazione la terribile parabola del barone von Ungern.  Se la sua memoria non potrà essere lieta, cadere nei recessi, nelle campiture contrastate della sua vicenda, può ancora essere divertente.

 

 

 

 


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