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La libertà dell’acrobata in fuga – Intervista a Guido Rampoldi

di Jacopo Guerriero

Una volta Marcel Duchamp disegnò, su un pentagramma, un piccolo ciclista in salita. Bozzetto e sotto una riga:«…avere l’apprendista nel sole». Rebus, per molti, aforisma per alcuni –c’è letteratura vasta in proposito. Forse, sotto una luce fredda e razionale, l’indicazione in favore dell’opera nella forma dell’incompiuto, l’amore per l’idea dell’idea, comunque rifiuto dell’eccesso, dell’espressione tronfia o inabile. Ci ripensi, per analogia, a leggere L’acrobata funesto di Guido Rampoldi (Feltrinelli, 16 euro, 253 pp.). A lungo inviato di Repubblica, scrittore di razza che in questo suo ultimo romanzo costruisce la storia di un agente dei servizi occidentali, forse statunitense, a riposo per disturbo post traumatico da stress, dopo anni di militanza nei teatri di guerra del mondo, dislocato a Roma, ai nostri giorni periferia dell’Impero, agli ordini di un ufficiale enigmatico che gli imporrà di fare i conti con un caso improbabile: quello dell’acrobata, appunto. Artista bambino e icona di velocità –simile al ciclista di Duchamp, angelo del bene o del male,  bambino assurto agli onori delle cronache in un giorno qualunque, durante un talk show, per l’eccezionalità molesta della sua performance. Lievitato fino a scomparire alla vista di tutti, in un movimento impossibile dentro lo studio televisivo deputato a ospitare il suo numero. Di lui non si hanno più tracce all’avvio del racconto.  Perché? Come ci è riuscito? I servizi italiani lo cercano e questa è un’anomalia. Scoprirà allora, il protagonista incaricato di indagare, che una storia poco chiara sta alle spalle di quell’essere meravigliosamente deforme, una vicenda che si avviluppa a una miriade di altre storie raccontate da documenti –rapporti, dossier, articoli di giornale- che si susseguono a costruire un romanzo veloce e appassionante. Gli scenari che si celano dietro la figura sempre sorprendente dell’acrobata hanno il sapore dell’Est Europa. Un filo rosso lo lega a storie anche cruente, a teatri di sconvolgimenti e di intensità, nel passato recente, che la nostra prossimità geografica non ha mai intuito. Ovvio che non siamo di fronte a una spy story ma a una sintesi narrativa classica dei nostri giorni. E’  L’acrobata funesto  una palestra in cui  utilizzare figure e strumenti differenti –dalla storia dell’intelligence, all’osservazione della geopolitica, passando dalla riflessione sulla  crisi del giornalismo- per provare ancora a leggere un romanzo come se fosse una ricerca viva, con aporie e intuizioni, imprevisti, svolte drammatiche. Un testo -una satira, un’opera zen, un’interrogazione- sulla verità e sull’etica del suo inseguimento all’alba del terzo millennio. Che è buona cosa approfondire con l’autore.

 Rampoldi, fin dall’inizio, l’intento della sua narrazione era quello di dire dei nostri giorni?

Volevo raccontare questi anni come un’epoca di decadenza, aperta tanto a pericolose derive quanto a fortunate scoperte; e la volevo raccontare attraverso un tratto caratteristico di ogni decadenza, la crisi del senso, dove per ‘senso’ intendo una qualsiasi idea coerente della storia, della complessità, del proprio stare nel mondo. Questa intenzione trascinava un problema tecnico di non facile soluzione: mi occorreva una forma letteraria coerente al contenuto, dunque capace di rendere la povertà di senso – o più esattamente il suo risultato, la frammentazione di ogni visione del mondo  in quel tritato di opinioni e di notizie malferme che ci offre l’informazione.

Quindi serviva una soluzione formale che assomigliasse a una non-forma  ?

Ho deciso di fare una scelta indubbiamente rischiosa: ho rinunciato alla linearità della narrazione, essendo la linearità la forma propria del senso (infatti  ‘senso’ sta anche per ‘direzione’, e la direzione è appunto indicata da una successione di punti, una linea). Da qui un romanzo che fino al disvelamento finale pare sul punto di perdersi nel nulla, un sommarsi tumultuoso di frammenti che formeranno una figura nitida soltanto nelle ultime pagine, una narrazione che si snoda lungo una zigzagante navigazione in internet. Lo chiamerei un fratto-romanzo, per intendere l’equivalente letterario di un modello geometrico non lineare, i frattali, che i matematici ritengono il più adatto a descrivere i sistemi caotici.

Scelta politica?

Temo che la vita somigli sempre più ai sistemi caotici che alle eleganti geometrie euclidee di  un bel ‘giallo’ concluso da una verità definitiva, trionfante sul male e sulla confusione che lo nasconde. Questa impressione di insensatezza, che non mi pare solitaria (la ritrovo, per esempio, in un bel romanzo di Sergio Pent che ho appena finito di leggere, Piove anche a Roma), è un prodotto storico dei periodi di crisi, durante i quali cresce la domanda di scorciatoie irrazionali – in proposito l’Europa presenta una vasta offerta politica. Ma le fasi di generale disorientamento offrono anche straordinarie opportunità alle nuove visioni del mondo, alle idee spiazzanti come il mio misterioso acrobata.

In queste pagine si respira sfiducia verso il giornalismo. Si ricava dalla lettura dell’Acrobata che abbiamo molto più bisogno dell’esercizio di pensiero, di un‘osservazione enciclopedica della realtà e, come dire?, sempre in divenire piuttosto che della vecchia ricetta “fatti e non opinioni”? Mi sembra qualcosa di radicale… Un romanzo, a questo punto, sfiora  la verità molto più di una cronaca.

Se parliamo della storia nel suo divenire, temo sia proprio così. Il romanzo può raccontare con libertà e forza espressiva quel che il giornalismo omette o comprime, e spesso è l’essenziale. Ho seguito una dozzina di guerre come inviato speciale e di una buona metà di queste sono convinto che la rappresentazione offerta dall’informazione, soprattutto in Italia, aveva poco a che fare con la realtà. Spartiva, semmai, con le inclinazioni ideologiche dei lettori, con i desiderata degli editori, con i pregiudizi dei giornalisti, con le pressioni di alcune ambasciate, di alcuni servizi, del governo, dei partiti, della diplomazia…. ma non con la realtà. Mi riferisco tanto a rappresentazioni ‘interventiste’, funzionali a giustificare la partecipazione del Paese ad un’impresa militare, quanto a rappresentazioni ‘pacifiste’, tese a dimostrare la virtù dell’inazione. E questo non è molto rassicurante, se consideriamo il fatto che la decisione più importante cui sia chiamata una democrazia, mettere o no in campo le proprie forze armate,  si affida, o finge di affidarsi, ad un’informazione in essenza taroccata. Inoltre mi pare un po’ inquietante che destra e sinistra spesso guardino ai conflitti attraverso la stessa lente deformante, quel  che gli americani chiamano culturalism o essentialism. Huntington, o più esattamente la sua vulgata, per intenderci. I nostri valori! (giudaico-cristiani, aggiungono gli eruditi). La nostra civiltà! O anche: i Taliban sono patrioti e le donne afghane vogliono essere trattate come capre, è la loro cultura! Questo sciocchezzaio va ancora forte, tanto nelle redazioni quanto in parlamento.

Nel libro, ritorna come Scizia un’area geografica ampia, forse assimilabile all’Europa dell’Est  e in parte ai Balcani. Forse il primo teatro, con le “rivoluzioni arancioni”, di quelle cyber rivolte (poi secondo il modello Otpor esportate anche in Maghreb) in cui diversi servizi hanno approntato e agito quella…”tattica minimale” di interventi micro finalizzati pure alla generazione di equivoci potenzialmente macro. Non le sembra che molte delle retoriche degli anni novanta –l’invenzione dei multiple name come strumento di lotta, per esempio- abbiano clamorosamente segnato il passo? Secondo quanto lei ha osservato, Internet è servito più al potere o a chi, in continuazione, prova a riformarlo o ad abbatterlo?

I servizi segreti non sono il male e il loro intervento può essere molto positivo. Alcune rivoluzioni del  1989, per esempio la rivoluzione cecoslovacca, furono rese possibili da una entente cordiale tra Cia e Kgb. Le cose si complicarono due anni dopo, quando entrarono in scena gli europei in competizione tra loro e per insipienza favorirono quell’immane disastro che fu l’implosione della Jugoslavia. In altre parole i servizi segreti sono uno strumento che può dare risultati ottimi oppure pessimi, a seconda delle intenzioni, e soprattutto dell’abilità, di chi lo impugna. Possono aiutare la causa della libertà oppure intorbidire e confondere, lo scopo cui alcuni di quegli apparati cominciano ad applicarsi intensamente anche in internet. Già ora l’evoluzione dei metodi e delle tecnologie utilizzate dal cosiddetto astroturfing permette di simulare nella Rete l’esistenza di movimenti ‘spontanei’; e di usare questi falsi per orientare segmenti di società civile a favore o contro il tale governo, la determinata politica. La stessa duplicità vale per internet. Internet ha giovato moltissimo, per esempio, alla difesa dei diritti umani amplificando la protesta per le violazioni. Ma anch’essa contribuisce ad un’illusione pericolosa:  così vasta oggi è l’offerta di opinioni e di notizie, in edicola come nel web, che chiunque è convinto di poter attingere alla verità con un giretto in quei bazar. Non è così. Chi pretende di  navigare l’oceano senza fatica e senza rischi, oltre che senza equipaggiamento adeguato, è destinato al naufragio. E all’inverso, chi si avventuri in internet con la disponibilità ad esplorare e l’indispensabile strumentazione concettuale, può trovare cose fantastiche.  Verità sottaciute, idee strepitose, una straordinaria palestra della libertà.

Proviamo ora a stringere l’osservazione un poco sul nostro paese di cui forse, nel suo libro, Roma è figura emblematica, così inconcepibile e sempre in metamorfosi tra perdita, restaurazioni, memoria, oblio.  Provo a chiederle il passo dell’osservatore politico ma anche –soprattutto- del moralista (senza opportunismo morale): nel suo libro gli italiani sembrano un poco alieni rispetto al resto del mondo. Ma questo quanto è un male?   E quanto è un bene questa sorta di…. “italico anarchismo genetico”nel tempo del rischio, sempre meno latente, di totalitarismi di ritorno, di soluzioni forti?

Non credo alla tesi dell’anarchismo genetico, alla spiegazione  antropologica. Le regioni mi sembrano altre. Soprattutto questa: durante la Guerra fredda l’Italia è stata una periferia imperiale sempre meno importante, eppure nel complesso contenta di delegare ad altri il proprio destino, o perlomeno rassegnata alla disciplina richiesta agli uni e agli altri dai due Blocchi. Questa deresponsabilizzazione nazionale ha concorso fortemente all’affermarsi di una classe dirigente almeno in parte costruita con quella che uno storico del Basso Impero ha chiamato la selezione dei peggiori. Il suo lascito di clientes e homines postremi tuttora affolla apparati pubblici, consigli di amministrazione,  redazioni: non solo la classe politica. Un altro effetto della deresponsabilizzazione è stato una specie di rifiuto della nostra storia, essendo questa un ostacolo all’accettazione di una condizione subalterna. Non solo la storia remota ma perfino quella recente: si veda il disinteresse per il nostro Risorgimento. O la neutralizzazione della Resistenza, della sua vicenda complicata e appassionante, cui anche la sinistra ha concorso. Non mi pare si possa dire che l’establishment statunitense sfugga ad una dinamica degenerativa, però preferisco il suo smodato paradigma imperiale al rifiuto della storia, non fosse altro perché l’illusione di essere la Nuova Roma almeno implica il tentativo di governare gli eventi invece che subirli. Se scappi dalla storia, la storia ti verrà a cercare: non hai scampo.

Il suo libro –diciamolo senza rischiare di rovinare la lettura a potenziali lettori- chiude con una sorta di elogio della libertà –inavvicinabile, intangibile. Alla cui visione, in allegoria, pure accede il protagonista –e non altri- forse per la sua natura di….uomo di mare largo, non d’allevamento. Posso chiedere, allora, di delineare la più urgente tra le sfide del nostro tempo? Forse è la pedagogia?

Le questioni fondative non hanno mercato, come direbbero gli spiriti pratici. Temo interessino soltanto alcuni credenti, immagino pochi. E questo, lo dico da ateo, racconta di una società desolata, incapace di guardare oltre alla propria convenienza spiccia. Non credo si possa fare molto in proposito. Bene o male, curiosità e passioni, inclusa la passione per la libertà, non si possono apprendere a scuola. Nascono dal vissuto e devono traversare una linea d’ombra, un’esperienza forte che offra le coordinate per orientarsi. Quel che si può insegnare è l’attenzione verso il linguaggio, per non finire prigionieri nelle trappole che ogni tempo vi annida. Un’altra cosa che si può insegnare è questo: la libertà è molto più fragile di quanto immaginiamo. Salvo che in epoche particolari, non appassiona moltissimi. Soprattutto quando comporta rischi personali. Da qui la relativa docilità, per esempio, con la quale il personale e gli apparati di Stati democratici si sono messi al servizio dei regimi autoritari che avevano abbattuto quelle democrazie. Per restare in Italia: nel 1925 furono appena cinque i docenti universitari che rifiutarono il giuramento di fedeltà preteso dalla neonata dittatura fascista. Cinque su decine di migliaia, quanti erano gli impiegati della Pubblica istruzione.  In Francia la polizia del governo del Fronte popolare pochi anni dopo dava la caccia agli ebrei per conto del Reich. Prendere atto della reversibilità delle democrazie non significa scambiare Berlusconi per il Duce, significa vigilare sullo Stato di diritto liberale, punire senza timidezza chi, pagato per servirlo, invece ne calpesta i principi, e mettere sempre nel conto che può finire molto male.


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