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L’exploit di Rosetta, la Gioconda del sociale.

La protagonista è una ragazza di 18 anni, belga, attrice quasi per caso. Il personaggio è una sua coetanea, uscita dall'immaginazione di due fratelli registi...

di Giuseppe Frangi

Innanzitutto, Rosetta sono due. La prima è la ragazza, figlia di immigrati italiani, creatura della fantasia dei fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne, ma in tutto e per tutto figlia della realtà di quest’Europa che vola su montagne di ricchezze ma non sa dare lavoro ai propri figli. La seconda è una sua coetanea, anche lei nata in Belgio, figlia della tranquilla provincia, diploma di maturità fresco fresco in tasca e alle soglie di una normale carriera universitaria. A questa seconda Rosetta un giorno accade un fatto imprevisto: l’occhio le scivola tra le pagine del giornale, pagina dei piccoli annunci. Un avviso di casting per un film dei registi fratelli Dardenne, che, per lei, che non mette mai piede in un cinema, sono dei signori nessuno. I requisiti richiesti grosso modo corrispondono a quel che lei è. Quel piccolo annuncio ha la forza di una grande chiamata, quasi travolgente. Convincere la famiglia è un gioco, sfidare la concorrenza di altre 300 candidate allo stesso ruolo, un po’ meno. Ma Emilie Duquenne – questo è il nome vero di Rosetta seconda – non teme nessuno ostacolo. Poco alla volta viene a conoscere il personaggio che, qualora scelta, dovrà impersonare, cioè la prima Rosetta. Non è questione di gusto, di trovarsi bene in quei panni. È una sorta di attrazione selvaggia. Emilie è Rosetta. Lo capiscono bene i due registi fratelli arrivati all’ultima selezione. Tre concorrenti ancora in gara. Ma in realtà non c’è gara. Quando chiedono alle tre aspiranti attrici di fingersi venditrici di gaufres (il dolce belga che Rosetta nel film vende per guadagnarsi da vivere), Emilie non ha più rivali. Raccontano i fratelli Dardenne: «L’abbiamo messa davanti a un piccolo tavolo. Le abbiamo detto di fingere di vendere le gaufres e lei che non aveva mai recitato prima d’allora, in un attimo ha creato una baracca davanti a sé, ha fatto esistere i suoi clienti. Insomma una vera forza della natura». Emilie, la piccola ragazza borghese che vuole la parte di Rosetta, cercando con tanta testardaggine questa scrittura diventa un po’ Rosetta, la figlia di emigrati italiani che aggredisce la vita perché la vita non la sotterri. Emilie s’aggrappa a quella parte. La vuole con un’ostinazione inaudita. Ricordano i registi: «Eravamo un po’ sgomenti. Al di là della sua bravura, era come se si fosse già confusa con la Rosetta del nostro film». Rosetta va alla guerra Ma chi è allora la prima Rosetta, il personaggio immaginato dai fratelli Dardenne per la loro pellicola? È una diciassettenne, figlia di immigrati italiani, che vive con la mamma alcolizzata in una roulotte e si aggrappa alla vita con una forza selvaggia. La sceneggiatura non le lascia scampo: «Rosetta ogni giorno parte per il fronte alla ricerca di un lavoro. È ossessionata dalla paura di sparire, dalla vergogna di essere una reietta». Vive alle porte di Liegi, quartiere di Seraing, piena periferia operaia, in una terra grigia sotto un cielo grigio. È cresciuta con un’umanità che giorno dopo giorno si sentiva sempre più ai margini della storia: inutile, abbandonata, vittima sacrificale di una crisi che riempiva d’oro le tasche dei milioni di scommettitori di borsa, dei milioni di cavalieri della finanza. Ma lì a Seraing, la storia è arrivata al capolinea. E se è difficile pensare di non arrendersi, Rosetta è di quelle che ad arrendersi non pensa neppure quando dorme. Scaraventata ai margini della società, lei sbatte i pugni per rientrarci. E la sua furia è tale da invertire anche la forza cieca della storia. I fratelli Dardenne hanno un’immagine efficace per descrivere il loro personaggio: è una guerriera. E il film è un film di guerra. Un critico l’ha paragonato a un western. E infatti, come in un western, la protagonista fa la prima comparsa di spalle, come se cavalcasse contro un invisibile nemico tra le pareti strette e insidiose di un canyon. Solo che questa volta il cowboy ha la vestaglia bianca delle cameriere e quando si volta verso la camera rivela di avere in testa una charlotte, un copricapo di carta. Rosetta infatti è cameriera in un baracchino che vende gaufres. Normalmente sfruttata dal suo padrone. Niente di disumano, solo un sottile disprezzo, per cui lei si sente sempre sul filo del rasoio della sopravvivenza. Ma lavora con grinta, quasi con furia. La sua casa non è una casa, è una roulotte. Per raggiungerla Rosetta deve ogni sera tuffarsi in un bosco che sta al di là dell’autostrada. L’attraversamento, nel buio, è ogni volta una sfida: non per i pericoli fisici che corre, ma per la volontà incrollabile la mattina dopo di riattraversarlo, di tornare nel mondo, anche se il mondo le riserva un angolo così miserando, così impregnato di umiliazione. Nella roulotte l’attende la madre alcolizzata. Lei l’accudisce senza mai arretrare di un millimetro. Quando è il caso trova la forza sovrumana per recuperarla e riportarla di peso, lei così minuta, oltre la miserabile porta della loro casetta di lamiera. Un film capace di fare scandalo Emilie girando il film diventa la fotocopia di questa creatura innocente e travolgente. Lei stessa trova la forza per sollevare l’attrice che nel film fa la parte della mamma. E poi c’è un episodio emblematico. Nella vita di Rosetta c’è un elemento simbolo: la bombola del gas, quella a cui è legata, come un filo sottile, la possibilità di una vita civile: scaldarsi, illuminare, cucinare. Ma quanto pesa quella bombola, da portare tanto lontano ogni volta che si esaurisce! Emilie nel film ha accettato la sfida. Nonostante l’insistenza dei registi ha voluto che fosse davvero piena, come quella che Rosetta, ciabattando nel fango, ogni volta caparbiamente riportava nella roulotte. Rosetta nei tempi bui vive di pesca. E Emilie non ha accettato di fingere. Affonda le sue dita nella scatola delle esche, sente la morsa del gelo ai piedi mentre aspetta che arrivino movimenti dal suo amo. Faceva meno dieci, perché il film è stato girato a novembre, giusto un anno fa. E tra una ripresa e l’altra Emilie-Rosetta si toglieva gli stivali e infilava i piedi in un secchio di acqua calda. «All’inizio il personaggio era una sagoma vaga davanti ai nostri occhi» raccontano i fratelli Dardenne. «Poi Emilie l’ha fatta esistere, è diventata una creatura in carne ed ossa. È diventata così vera come nessuno di noi l’aveva mai sentita». E, per finire, c’è il film. Un capolavoro per molti. Uno scandalo per altri. Certo un film profondamente anomalo: steadycam a spalle, obiettivo sempre incollato sulla protagonista. 82 minuti di pellicola senza che in un fotogramma lei non ci sia. Un inseguimento, un assedio, una vita con il ronzio della cinepresa alle spalle. Ma la bravura dei fratelli Dardenne (o il loro amore per la realtà) fa sì che sia sempre lei a dettare i tempi, il suo respiro a dare il ritmo al film, le sue angosce a dargli i sussulti. È un vero film da fine millennio, aggressivo, senza pace, traballante come quelli degli scapestrati danesi di Dogma 95 (solo riprese dal vero, solo cineprese a spalle). «Rosetta talvolta si metteva a correre verso qualcosa che noi non sapevamo e che la sceneggiatura non prevedeva. Noi le andavamo dietro, fidandoci del suo impulso. Correvamo con lei, cercando di stringere il più possibile l’inquadratura su di lei. Volevamo dare allo spettatore la sensazione che le ossessioni di Rosetta, le sue paure fossero cosa da spartire, in cui imbattersi fisicamente». In effetti la tensione è sempre al massimo. Ad ogni passo ci si chiede: e adesso cosa farà? Come uscirà dal casino in cui si è infilata? Da che parte andrà a sbattere? Se la società civile è una fortezza I Dardenne spiegano che all’inizio il film è solo un’idea geografica: la roulotte da una parte dell’autostrada, la possibilità di sopravvivere e di non sparire dall’altra parte. Da una parte gli ultimi lembi di città; dall’altra l’inizio del bosco, con il bagliore fioco di quella casa su quattro ruote. Il film per il resto è lei. Non ci sono nemici che originano un’azione: sarebbe stato troppo schematico, troppo semplicistico. Il nemico Rosetta se lo sente dentro, ogni volta che affiora la tentazione di arrendersi. «Non è una selvaggia» spiegano i Dardenne. «La sua violenza non è biologica, è una risposta a ciò che la società le fa subire. Lottando per entrare nella fortezza della società civile, diventa poco alla volta anche lei una fortezza. Ma non vuole impietosire, mai. Tanto è vero che non piange mai, ed è la cosa che Emilie ha capito per ultimo. Tante volte, l’immedesimazione e la fatica erano tali che lei avrebbe voluto piangere, anche nel film. Ma lì abbiamo tenuto duro noi». La storia di Emilie-Rosetta si chiude con l’apoteosi di Cannes: prima la selezione in concorso, già sorprendente. Poi la Palma d’Oro come miglior film e come miglior interpretazione femminile. La critica è insorta contro la decisione della giuria: c’è poca cultura e troppo pessimismo in quel film. Ma David Cronenberg, presidente della giuria, grande regista canadese, ha difeso con dignità e a spada tratta quel verdetto: «Quando ho visto Rosetta non mi sono mai sentito depresso. Anzi mi sono sentito eccitato, euforico, pieno di voglia di vivere. Certo può essere un film pessimista per certe sottolineature sociali. Ma il pessimismo più devastante, per me, è quello di chi crede che il cinema non debba più fare film così». In Europa è nato il neo-neorealismo Jean Pierre e Luc Dardenne, 54 e 52 anni rispettivamente, non sono registi alle prime armi. Al loro attivo hanno già alcuni film, uno di particolare successo La promesse. Hanno una loro casa di produzione e fanno parte di quell’ormai vasto movimento che sta caratterizzando il cinema europeo di questa fine millennio: una specie di neorealismo che batte i ritmi furiosi di questo tempo. Questo cinema che ha avuto agli inizi degli anni Novanta l’Inghilterra come terra d’elezione (Ken Loach, Stephen Frears e Mike Leigh ne sono stati i profeti), ora sembra aver spostato il suo cuore tra Paesi Bassi e Francia del Nord. Quasi ai confini con il Belgio ha girato i suoi due film straordinari Bruno Dumont: L’età inquieta e L’humanité (un’altra pellicola premiata a Cannes con il Premio speciale della Giuria, tra il generale dissenso della critica). A Lille Erik Zonca ha girato La vita sognata degli angeli, film di grande successo. A sud, ma sempre in Francia, c’è la realtà delle periferie urbane di Marius e Jannette di Robert Guediguan o quella commovente di Nenette e Boni girato da una donna, Claire Denis. Mentre sugli schermi francesi sta riscuotendo grande successo Rien à faire, storia d’amore tra due giovani disoccupati girato da Marion Vernoux. Tanti film attenti al sociale, con bilanci sempre più in attivo.


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