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L’inutile inferno. E ora il carcere vada in gattabuia

L'Italia da rifare. Come trovare una soluzione al dramma delle galere.

di Cristina Giudici

Inferno, è questa l?immagine cui la stampa ha fatto più ricorso in questa settimana per raccontare il pestaggio di massa nel carcere San Sebastiano di Sassari e per definire, più in generale, le condizioni di vita di detenuti e secondini nelle patrie galere. Chi ci segue sa che questo inferno non è un episodio ma la realtà quotidiana delle carceri italiane. La dimensione eccezionale è ciò che non è riconducibile a questa dimensione disumana e infernale, non l?episodio di Sassari. Per questo, probabilmente, il 3 aprile del 2000 sarà una data da ricordare, un giorno in cui il carcere ha alzato per un po? il velo di omertà e di fastidio per mostrarsi nudo agli spettatori della società esterna. Più probabile, però, che tra qualche settimana, affievoliti gli echi giudiziari dell?episodio, il caso del San Sebastiano sarà dimenticato, superato da altre e sempre nuove emergenze. Sassari è stato, infatti, solo il corto circuito di un sistema ammalato, afflitto da mille patologie mai curate, meno che mai in questi ultimi due anni. I pestaggi nelle carceri italiane non sono infatti un?eccezione, ma la realtà quotidiana, come lo sono i suicidi, il sovraffollamento, le epidemie, le vessazioni, l?omessa custodia, il mancato trattamento. ?Vita?, attraverso una rubrica settimanale e una messe di servizi e inchieste, ne ha svelato tutti i meccanismi, anche i più contorti, che spesso mettono sullo stesso piano carcerato e carceriere in un unico viaggio di sola andata verso, appunto, il comune inferno. È vero che gli agenti di polizia penitenziaria pestano i detenuti anche a Opera, Rebibbia, Poggio Reale, Regina Coeli, Parma, Badu ?e Carros? Sì è vero, ce lo dicono ogni giorno i detenuti stessi. È vero che si cura male e poco, che le denunce al tribunale del malato sono sempre più numerose, i suicidi sono in aumento e che per 53mila ospiti delle patrie galere ci sono solo 775 educatori ad affrontare il reinserimento dei detenuti? Si, è vero. Perciò, nella settimana in cui la realtà infernale delle galere italiane è venuta a galla, allo scoperto, vogliamo gettare lo sguardo al di là dell?ordinaria emergenza, per provare a chiederci da dove cominciare per ricostruire il sistema carcerario. Quali sono le idee in campo, quali le priorità? Quattro, a parere nostro e delle associazioni con le quali settimanalmente ci confrontiamo, le riforme (di cui alcune già in corso) da cui ripartire, le riforme che potrebbero impedire al fiume in piena del disastro penitenziario di tracimare gli argini. Eccole. La tutela dei diritti: il difensore civico Con un rapporto di guardie-detenuti che non ha l?uguale nei Paesi industrializzati, non è difficile credere all?osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell?associazione Antigone, che ha monitorato le principali carceri italiane scoprendo che nel 1999 gli episodi di pestaggio e di gravi soprusi commessi nei confronti dei detenuti sono stati circa 30, ma le denunce mai arrivate sul tavolo delle procure o del Dap, sono molte di più. Centinaia di casi di vessazioni, piccole e grandi, che vanno dall?alzare il prezzo sui prodotti comprati allo spaccio interno alle carceri fino all?uso delle celle di isolamento, alla mancata assistenza medica, ai rapporti disciplinari scritti dagli agenti che influiscono negativamente sulla concessione di misure alternative. Antigone ha consegnato in questi giorni al nuovo guardasigilli, Fassino, la proposta di istituire un difensore civico, una figura terza e indipendente che possa tutelare i diritti dei detenuti. «Fino a oggi questo compito è stato affidato al magistrato di sorveglianza, che però con l?ampliarsi delle sue competenze e del numero dei detenuti ha perso ogni capacità di controllo e garanzia», ci dice Stefano Anastasia, presidente di Antigone, «In Parlamento giace ancora la proposta di Ersilia Salvato (Ds) e di Giuliano Pisapia (Rc), sostenuta e appoggiata da molte associazioni e personalità pubbliche». Oggi, infatti, i detenuti possono esporre reclami alla direzione dell?istituto o inviare una denuncia all?autorità giudiziaria, ma spesso rinunciano volontariamente per timore delle ritorsioni che possono essere sia fisiche (il maltrattamento) sia relative al proprio reinserimento (rapporti disciplinari). «Perciò ci vuole una figura istituzionale che tuteli i dritti delle persone private dalla libertà», aggiunge Anastasia, «così potremmo mettere fine a una pratica consolidata di abusi e soprusi all?interno del carcere». Fassino ascolterà? La custodia attenuata In 256 carceri italiane sono stipati quasi 54mila detenuti, di cui 18mila tossicodipendenti, il trentacinque per cento sono stranieri. Attualmente, a causa delle deficienze delle strutture e del sovraffollamento, i condannati (eccetto i 41bis) vivono in totale promiscuità, impedendo così agli operatori di lavorare a un reale reinserimento nella società di quelli meno pericolosi. Da anni si parla di differenziare i circuiti penitenziari che dividano i carcerati con pene lunghe da quelli che hanno compiuto un solo reato o sono stati condannati per piccoli o medi reati. Fino ad ora però l?idea è stata realizzata solo per quanto riguarda la custodia attenuata, prevista per alcuni tossicodipendenti. In Italia ci sono solo 10 strutture, fra reparti e istituti, che hanno come scopo esclusivo il fine rieducativo della pena previsto dalla legge. L?esperienza più riuscita è quella di Sollicianino, a Firenze, dove 50 detenuti vivono in regime di detenzione attenuata e comunitaria, ma altri esperienze simili sono a Empoli, Venezia, Roma, Napoli, Torino, Eboli, Roma. Nelle custodie attenuate le celle sono sempre aperte, gli agenti penitenziari lavorano in continua collaborazione con gli educatori (che non sono assenti come nel resto delle prigioni). I detenuti hanno un impiego, frequentano corsi di formazione e vengono seguiti passo per passo da un?équipe di operatori e psicologi che inquadrano il loro percorso di reinserimento. E gli esiti sono soddisfacenti: dal follow up eseguito su ex detenuti dimessi dalle custodie attenuate emerge che almeno il 50% di loro viene riassorbito dalla società e il 60% non è recidivo. Quindi la custodia attenuata rappresenta la speranza per tutti quei 18mila tossicodipendenti che invece in carcere continuano a drogarsi e nelle celle siedono sui banchi della scuola del crimine. Perché a tutt?oggi solo poche centinaia (pare siano 347) di detenuti tossicodipendenti (su 18.000!) godono di questa possibilità? Opportunità di lavoro Il lavoro in carcere diminuisce, mentre i detenuti aumentano. Questo è un fattore che può portare al tracollo del sistema penitenziario perché come hanno riconosciuto tutti, politici, operatori penitenziari, volontari e imprenditori, il lavoro in carcere è veramente l?unica soluzione di reinserimento. Altrimenti il carcere non serve proprio a nulla. A che pro tenere migliaia di persone in cattività, chiuse nelle loro celle per 20 ore? A cosa serve tenere uomini come topi che per azzannarsi devono far ricorso al vino, alla droga e qualche volta perfino alla bomboletta di gas o alla violenza? Forse la società si sente più tranquilla, ma a fine pena ci ritroveremo un ex detenuto in più libero e incarognito, incapace di fare un mestiere, e che, perciò, tornerà allo stesso punto di prima e sarà ancora più incattivito dagli orrori imparati in prigione. La mancanza di lavoro in carcere ha già fatto troppi guai. Basta guardare le cifre: 59 suicidi, 975 tentati suicidi, 6800 atti di autolesionismo, 1200 episodi di aggressione. Che fare allora? Implementare ed estendere a tutte le carceri i progetti che le associazioni di volontariato sono riuscite malgrado tutto a introdurre stabilmente in alcuni istituti. Come l?Agenzia di solidarietà per il lavoro, ideata da Sergio Cusani che ha cercato di dar vita un ufficio di collocamento per ex detenuti chiedendo la collaborazione di imprenditori privati, oppure seguendo le orme della cooperativa sociale Giotto di Padova che da 10 anni dà lavoro a detenuti del carcere di massima sicurezza di Padova, ?Due Palazzi?. «In dieci anni», spiega Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa, «abbiamo coinvolto 250 detenuti, ristrutturando un?area dismessa all?interno del carcere, poi siamo riusciti a dare lavoro esterno a 35 detenuti reclusi nelle sezioni di alta sicurezza. Questo dimostra che il reinserimento attraverso l?attività produttiva è una sfida che si può vincere». La cooperativa Giotto ha creato posti di lavoro nel campo della manutenzione del verde e all?interno del carcere ha realizzato un parco didattico di 8000 metri quadrati per insegnare il mestiere ai detenuti. Ma non basta. Per portare lavoro verso i detenuti ci vogliono norme precise. Nelle prossime settimane se il carcere non verrà un?altra volta dimenticato, forse finalmente verrà approvato il disegno di legge del senatore Carlo Smuraglia, che prevede incentivi e agevolazioni fiscali per imprese e cooperative impegnate a creare fonti d?impiego per detenuti, fuori e dentro il carcere. «Si tratta di abbattere il costo del lavoro per le imprese coinvolte e di estendere almeno a 4 mesi la condizione di soggetto svantaggiato ai detenuti che lasciano il carcere», spiega il senatore, presidente della commissione Lavoro. «Questo permetterà loro di inserirsi gradualmente nel mondo del lavoro senza essere gettati allo sbaraglio, ma bisogna in fare in fretta perché il carcere non può più aspettare». Nuove carceri, davvero Dopo i fatti di Sassari il governo ha stanziato 160 miliardi per costruire quattro nuovi carceri, ma è chiaro che le patologie del sistema penitenziario non potranno certo essere guarite dalla costruzione di nuovi supercarceri. Tra l?altro ce ne sono già, e del tutto vuoti, nonostante la capienza massima degl istituti di pena italiani sia già stata superata di 16.600 unità, e quella anche solo ?tollerabile? di 11.200. Non cesserà la violenza né cesseranno le proteste, indipendentemente dal fatto che vengano mantenute le strutture fatiscenti dei panottici, o che invece ci si orienti verso casermoni lindi ma egualmente opprimenti, la cui unica virtù è quella di spostare il problema dalla città verso qualche periferia degradata dove nessuno possa vedere né sentire cosa accade dentro. Come ci dice l?ex direttore dell?amministrazione penitenziaria, Sandro Margara: «Negli istituti di recente realizzazione il soggetto diventa nascosto e sparisce. Quei percorsi interminabili tra labirinti di corridoi danno un senso di smarrimento. Suppongo che si arrivi alla cella con un senso di sollievo perché almeno lì si riconosce un luogo abitato, vissuto, ?umano?. Inoltre a questi percorsi alienanti, corrispondono spesso cortili e spazi per detenuti molto piccoli». No, è la stessa architettura penitenziaria che deve ripensarsi e cambiare, accogliendo in sé forme più armoniche e spazi civili, più umani e funzionali, che senza togliere nulla alla sicurezza possano dare un senso di ritorno al futuro ai condannati. Da più di dieci anni la fondazione Michelucci ci sta provando. Un gruppo di architetti della fondazione è riuscita alla fine degli anni ottanta a progettare un giardino interno al carcere di Solliciano, a Firenze, che potesse essere funzionale all?incontro fra detenuti e i familiari, un luogo che non fosse solo angoscia, punizione e oblio. Da allora più nulla. Dal 1992 ogni anno gli architetti della Fondazione bussano all?amministrazione penitenziaria per presentare un progetto partecipato, costruito cioè con i detenuti, con la speranza che la burocrazia del Dipartimento accolga queste innovazioni nel campo dell?edilizia penitenziaria. «Nella progettazione carceraria», si sfoga l?architetto Corrado Marcetti della fondazione Michelucci, «l?emersione di nuovi modelli si è affacciata diverse volte e in diversi Paesi, ma solo raramente ha avuto la possibilità di concretizzarsi. Noi continuiamo a proporre all?amministrazione di creare degli spazi che non siano solo dei ghetti, non diano solo il senso di chiusura, ma che favoriscano gli spazi esterni, promuovano il contatto con il mondo di fuori, ma sino ad oggi non abbiamo avuto risposte». ?


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