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L’outsider che ha rimesso Milano in cornice

di Redazione

Marina Pugliese, 42 anni, una carriera tutta trascorsa tra
le collezioni meneghine, ha curato la nascita di un museo che ha messo in fila ben 200mila visitatori in un mese.
E che anche dall’America guardano con ammirazioneTutti in fila ordinatamente. Non per i saldi invernali, e nemmeno per l’ultimo cinepanettone, ma per entrare al Museo del Novecento, nuova spettacolare “attrazione” di Milano nell’ex Arengario in piazza Duomo. Merito anche suo se il New York Times ha incluso la metropoli lombarda, unica città italiana, nei 41 luoghi imperdibili del mondo? «Può darsi, certo il segnale è incoraggiante per la cultura italiana. Per noi lo sono i numeri: in un mese abbiamo superato il record dei 200mila visitatori», risponde soddisfatta la direttrice Marina Pugliese. Inaugurato il 6 dicembre, il Museo del Novecento espone 350 quadri e sculture delle circa quattromila opere provenienti dalle Civiche Raccolte, un corpus che spazia dalle avanguardie internazionali di inizio secolo al Futurismo, dalla metafisica al pop degli anni 70.
Da dove si parte per fare un museo come questo?
Da molto lontano. Da tutti gli studi sul patrimonio, la catalogazione, il restauro, l’ordinamento dei depositi, gli archivi. Per decidere che cosa esporre abbiamo coinvolto un comitato scientifico che ha lavorato per due anni. Tutte le scelte, le inclusioni ma anche le esclusioni, sono state attentamente meditate. Si è trattato di costruire un racconto rispettoso della storia delle collezioni, della storia dell’arte e della bellezza delle singole opere. Questa è forse una delle rare volte in cui un progetto museale ha seguito il cammino di una collezione. Il concetto alla base di questa nuova realizzazione è la compenetrazione tra il contenitore e il contenuto: i bassorilievi di Arturo Martini sulla facciata, per esempio, dialogano con la collezione di sculture dell’artista. Da ogni piano si apre uno squarcio sulla città e sulla sua sedimentazione architettonica, dal trecentesco campanile di San Gottardo alle architetture di Luigi Figini.
Vi siete ispirati a qualche modello straniero?
A me è sempre piaciuto il Centre Pompidou di Parigi, perché è anche un centro culturale dove succedono tante cose contemporaneamente: si fanno rassegne di cinema, c’è un bookshop aperto, c’è lo spazio per i bambini… È un modello molto ambizioso, però Milano ha l’esigenza di un luogo dove si mostri quello che succede a livello culturale in città, che diventi una sorta di vetrina. Infatti, anche nella struttura abbiamo lavorato molto sul concetto della “trasparenza”, che i contenuti fossero visibili anche all’esterno e che il Museo fosse proiettato sulla città. Con continue aperture che permettono da dentro di vedere il fuori, ma soprattutto da fuori di vedere dentro.
Negli ultimi anni la fruizione museale è molto cambiata. Qual è secondo lei il futuro?
C’è la tendenza a non fare più le grandi mostre-evento, ma a trasformare i musei in qualcosa di vivo. Più che in termini di evento, bisogna ragionare in termini di investimento culturale: bisogna “seminare”, pensare a quello che si stratifica e rimane. Noi abbiamo sempre ragionato in quest’ottica. Ad esempio, abbiamo organizzato qualche anno fa una mostra su Carlo Carrà e i cartoni e ci siamo fatti restaurare tutto il ciclo dei cartoni, tre dei quali ora sono esposti al museo.
Qualcuno ha parlato di sfida al Maxxi di Roma…
Sono due tipologie completamente diverse. Il Maxxi ha velleità di tipo internazionale, mentre il Museo del Novecento racconta una storia dell’arte tutta italiana, focalizzata su Milano, che è stata la capitale dell’arte fino agli anni 60, e su cui si basa la cultura visiva italiana del secolo.
La rampa elicoidale del museo ricorda il Guggenheim… Il progetto dell’architetto Rota è bello, ma c’è chi ha criticato l’utilizzo invasivo delle scale mobili.
Il percorso è molto fluido proprio grazie alle tantissime modalità di ascensione. E la scala mobile permette una percezione dinamica del museo. Io poi trovo molto gradevole che ci siano queste finestrature, poco invasive e che permettono punti di vista differenti. Trovo bellissima quella che permette di vedere il soffitto di Fontana. Ci si avvicina in movimento.
Dagli esperti viene considerato un museo “friendly”. In che senso?
Siamo stati attentissimi a ogni singolo dettaglio, a cominciare dalle dimensioni delle didascalie che accompagnano le opere. Ma anche al corredo didattico, che vuol dire investire sul futuro: i bambini di oggi saranno il pubblico degli adulti di domani. Abbiamo articolato il percorso in maniera attenta per le diverse fasce di età. Arrivando persino a pensare alla didattica per gli adulti e per i disabili.
Due critiche: aver smembrato la collezione Boschi Di Stefani, donata al Comune per essere custodita nella casa-museo di via Jan, e aver relegato le sculture di Marino Marini in una posizione che non c’entra con il percorso del museo. Risposta?
Nessuno smembramento: abbiamo solo 20 opere su 300 e siamo stati superficialmente attaccati per non avere esposto Savinio. In realtà il Museo del Novecento è complementare alla casa-museo Boschi Di Stefano, aperta nel 2003: proprio per questo non era giusto spostare le opere più importanti. Abbiamo fatto un lavoro estremamente calibrato con il comitato scientifico decidendo per esempio di non prendere Savinio perché è il loro simbolo-icona, è sul catalogo della casa museo: sarebbe stato come togliere La dama del Pollaiolo al Poldi Pezzoli! Mentre su Marino Marini la complessità era l’esigenza di spostare un intero museo, che era nella Villa Reale. E di farlo con coerenza. Come inserirlo all’interno del percorso, che è cronologico? L’unica collocazione era quella che abbiamo scelto, peraltro concordandola con la Fondazione Marino Marini.
Al museo ci sono tanti capolavori, lei quale predilige?
Sono particolarmente fiera di una parte del museo: quella dedicata all’arte cinetica e programmata del Gruppo T, un gruppo di artisti allievi di Munari e di Fontana incredibilmente innovativi e di ricerca degli anni 60, ingiustamente dimenticati dalla città.
Qual è per lei l’icona del museo?
Il Quarto Stato Pellizza da Volpedo è impressionante e identitario. La cosa importante è che è stato restituito gratuitamente alla popolazione. Proprio perché è stato comprato nel 1920 dai milanesi con una pubblica sottoscrizione, abbiamo scelto di inserirlo come premessa del percorso espositivo.


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