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Naufraghi a Rebibbia

Un famoso ex terrorista nero e un pittore innamorato dei perdenti hanno girato un film sull’ultimo luogo inesplorato della Terra: il carcere. Perché? Ce lo spiegano loro stessi

di Valerio Fioravanti

O ra che il robottino cingolato è sceso su Marte per fotografare da vicino il pianeta che più di tutti ha intrigato la fantasia dei terrestri e ora che Messner ha in tasca la prova provata dell?assistenza dello yeti, di misterioso non resta veramente che il carcere. Tutti i record sono stati più o meno battuti, le vette conquistate, le isole esplorate, gli usi e costumi dei popoli più lontani rivoltati come guanti, i cannibali sono stati civilizzati, le foreste pluviali rase al suolo, veramente non c?è che la prigione e i suoi abitanti a restare avvolti nel mistero più fitto. Dal momento che anche ex-primitivi portano jeans e usano plastica, il carcere costituisce comunità paleolitica, o galeolitica, contemporanea. È un fossile vivente fuori tempo massimo, una gora spaziale in cui il tempo si è fermato, come quei racconti di fantascienza in cui i dinosauri convivono con l?homo sapiens. È una scheggia di passato infissa in un corpo che si ritiene ultramoderno, è il luogo del rimosso, il posto della contraddizione. Ci siamo conosciuti a Rebibbia nel ?95 all?interno di un progetto avviato dall?assessorato alla Cultura del Comune di Roma e dall?Arci Solidarietà che aveva come scopo rendere più visibile il penitenziario e avvicinarlo al resto della città di cui, malgrado tutto, fa parte. Insieme abbiamo deciso di raccontare questa realtà in modo nuovo, inedito, che non desse mai adito all?autocommiserazione. Da allora ci siamo buttati in un?impresa complessa e dalle molte sfaccettature, abbiamo pubblicato, con Stampa alternativa, due libri scritti a quattro mani, e fondato uno pseudomovimento artistico Gattabuismo che si è concretizzato in una mostra tenutasi al Palazzo delle Esposizioni a Roma. Il film ?Piccoli ergastoli?, per il quale abbiamo chiamato come co-autrice Francesca d?Aloja, non è che l?ultimo tassello di un lungo lavoro non ancora terminato. Un telescopio a tre prospettive Con ?Piccoli ergastoli? abbiamo montato una specie di visione telescopica a tre lenti focali: il carcere visto dai 17 anni di permanenza di Valerio, dai 17 mesi di Pablo come ?volontario?, e dai 17 giorni di Francesca d?Aloja. Avremmo voluto fondere le tre prospettive, le tre diverse profondità e gli ancor più diversi stati d?animo, ma il progetto era forse troppo ambizioso. Ci siamo dovuti accontentare di scegliere ognuno le proprie scene emblematiche e poi montarle in sequenza, sempre in bilico tra la nostra impostazione tra l?esausto e il drammatico ed una più rumorosamente pasoliniana della d?Aloja. A noi sembrava prioritario raccontare i perdenti, la loro disperata inerzia o il loro inutile iperattivismo, la d?Aloja invece era affascinata dai ?vincenti?, da quelli più furbi e scaltri che riescono a cavarsela anche all?inferno. Anzi al purgatorio, perché alla fin fine quello su cui forse siamo riusciti ad essere d?accordo è che il carcere è un enorme purgatorio. Il risultato di questa ottica multipla, non completamente omogenea, è comunque sostanzialmente onesto, reale e leale, senza finzioni e con la retorica e la sociologia tenute per quanto possibile a bada. Non c?è nessuna lettura politica, non si è voluto descrivere un sistema crudele che stritola le sue vittime, né uno buono di cui criminali incalliti si approfittano a loro piacimento. Naufraghi nel centro della società Come novelli esploratori abbiamo cercato di mostrare la quotidianità di un?esistenza sospesa, congelata, nella quale ogni gesto, anche il più elementare, assume una sua specificità, una eccezionalità assoluta, i meccanismi di sopravvivenza di naufraghi abbandonati nel pieno centro di una società che fa della produttività e dell?attivismo la sua prerogativa, tanti piccoli Robinson Crusoe che giorno dopo giorno devono lottare per affermare la propria esistenza non solo psichica ma anche materiale. Abbiamo tentato di riportare alla luce un relitto da cui tutti si tengono prudentemente alla larga e che invece, finché c?è, dovrebbe diventare una meta fissa, non di curiosità voyeuristica, ma oggetto di appassionato controllo per trovare quella soluzione che ne acceleri l?estinzione. Rinchiudere i corpi non serve a granché, non sposta di una virgola l?emergenza sociale, dilaziona solo i tempi, quello che serve è re-immetterli nella vita non cancellarli temporaneamente dalla vita.


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