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Per far star bene il malato a volte basta ascoltare

Carla Mayrhofer

di Mattia Schieppati

Oltre alle cure mediche, spesso ai lungo degentiin ospedale manca la medicina più utile: qualcuno che gli stia vicino, si presti ai loro raccontie li strappi dalla solitudine. Carla lo fa da 12 anni.Anche se i medici, a volte, sbuffano un po’…Più che mettersi a disposizione, voleva mettersi in ascolto. «Avevo da poco perduto mio padre prima e mia madre a distanza di pochi anni e, nel vivere con lei i giorni estremi della vita, ho pensato tante volte a tutte le persone che in quei momenti si trovano sole, in un letto di ospedale, con un gran bisogno ardente di raccontare il proprio dolore ma anche i propri sogni, le delusioni, le speranze… la propria vita insomma». È serena Carla Mayrhofer, napoletana, 61 anni, oggi in pensione dopo 27 anni di lavoro nella Biblioteca San Luigi dei padri Gesuiti della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale. Professione che, negli ultimi 12 anni, ha convissuto con l’impegno di Carla nell’associazione di volontariato ospedaliero Koinè – Insieme con l’ammalato, dove si occupa di «stare in ascolto», come sintetizza lei, presso il reparto Ortopedia II del presidio ospedaliero CTO – Ospedali dei Colli di Napoli.
Perché Koinè? Come l’hanno conquistata?
Ascoltando una presentazione di questa associazione sono rimasta colpita dalla sobria serietà dei principî, e dei modi. Niente pietismi, nessuno che si sente eccezionale per quello che fa. È stato subito come trovarsi tra persone amiche.
Come ci si prepara a questa vicinanza col malato?
È stato proprio il programma del corso di formazione ad attirarmi verso Koinè. Dopo il test attitudinale e un colloquio con uno psicologo, ho partecipato alle lezioni teoriche tenute da medici specialisti di psicologia dell’ammalato, operatori sanitari ed esperti del settore. Poi è iniziato il tirocinio in ospedale, dove sono entrata con la guida del “tutor” che, di volta in volta, mi spiegava, mi accompagnava e mi indicava le cose cui fare attenzione. È durato un anno. È stato anche utilissimo il corso “Balint”, quasi una psicoterapia di gruppo per migliorare la qualità del nostro volontariato.
Com’è stata la sua “prima volta”?
Sono entrata nelle stanze dei pazienti accompagnata dalla mia tutor. Mi sentivo come Dante nei gironi infernali, guidato da Virgilio. Dalla tutor ho imparato che il ghiaccio si rompe molto semplicemente, in apparenza. Il pericolo è diventare invadenti, o indiscreti. «Buon giorno! Mi chiamo Carla e sono una volontaria. Posso avere il piacere di conoscerla?». Si inizia così.
Che rapporto si instaura con medici e infermieri?
È un rapporto non sempre facile. La difficoltà è data dalla maggiore o minore preparazione degli infermieri e dei medici: se qualcuno si sente manchevole ha paura di essere giudicato da noi e non capisce che noi siamo lì solo per migliorare la condizione del malato.
Come vedeva il mondo dell’ospedale prima di averci a che fare attraverso questa attività?
Ho sempre visto l’ospedale come un luogo dove si può risolvere un problema di salute, e ho sempre pensato che siamo fortunati se possiamo andare in un pronto soccorso; ci sono tante persone, anche in Paesi occidentali, che questa possibilità non ce l’hanno. Per quanto riguarda i lungodegenti, mi sono sempre immedesimata nella loro condizione di prolungato isolamento, e non è un caso che abbia incontrato Koinè.
Qual è il bisogno più grande che ha un malato lungodegente?
Ha bisogno di ascolto. Ascolto come “presenza” dell’altro, per non sentirsi troppo solo col suo disagio e poi soprattutto come autenticità di dialogo. L’avere una persona estranea disposta ad ascoltarlo gli permette di rivelare a se stesso la sua realtà.
Qual è la situazione più difficile che ha dovuto affrontare?
Direi senz’altro quella con “xyz”, io lo chiamo così: un ragazzo molto intelligente e, come spesso capita quando c’è una così grande sensibilità, completamente fuori di testa. Il suo disagio mi ha toccato profondamente e ho fatto fatica a conservare il giusto distacco empatico quando, nell’ascoltarlo, mi sono avvicinata al suo abisso di sofferenza.
E la cosa più bella che ha imparato?
Più di tutte, è stato l’insegnamento dell’ascolto. Ancora, dopo tanti anni, su questo ho ancora molta strada da fare.
Consiglierebbe a un’amica di impegnarsi in questa attività?
Certamente. Anche se – premetto – non è un volontariato adatto proprio a tutti.
C’è un suggerimento che vorrebbe dare a chi guida la sua associazione, per migliorare qualche aspetto dell’attività?
L’unico suggerimento che mi sentirei di dare a Koinè è di non farsi prendere troppo dal desiderio di avere molti volontari, e di continuare a selezionare con attenzione coloro che chiedono di entrare nell’associazione. Questo perché reputo molto importante non solo la motivazione personale, ma soprattutto l’attitudine specifica a trattare con i malati.


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