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Per uno stupido pezzo di marmo in pi

Giovanni Pedrazzi, spiega perché sono morti Francesco e Marco e traccia uno scenario da incubo. «Nelle cave non ci sono né regole, né diritti. Devi accettare tutto, se non vuoi perdere il posto.

di Federico Cella

Per uno stupido, sporco blocco di marmo in più. Francesco e Marco, 28 e 31 anni, sono morti. Lì, sulle Alpi Apuane, nei dintorni di Massa Carrara, il regno del marmo; una frana, rapida e violenta, avvenuta alle 13.50 del 28 aprile 1998. Un incidente sul lavoro, è stato definito da giornalisti e commentatori, l?ennesimo nelle cave di marmo. «Un omicidio, voluto, per cui qualcuno dovrà assolutamente pagare». Giovanni Pedrazzi, un collega anziano dei due ragazzi, esponente di spicco dei Cobas Marmo, non si dà pace; ma soprattutto non vuole darla ai responsabili di questa tragedia. E l?accusa è chiara, quanto circostanziata: «L?Asl locale, dopo un sopralluogo su nostra segnalazione il 16 aprile, aveva notificato il 18 ai proprietari della ditta, Enrico Giminiani e Carlo Vanelli, la pericolosità e, dunque, l?impossibilità di lavorare su quella bancata. I due ?padroni? hanno tenuta nascosta la lettera per dieci giorni, nella speranza che nulla accadesse fino al taglio definitivo della montagna. E Francesco e Marco sono morti». Il vescovo è più a sinistra dei sindacalisti Non è un caso che siano stati proprio tra i più giovani della cava ad andare incontro a un destino che non doveva essere il loro. La logica del profitto a tutti i costi, e non quella dei diritti dei lavoratori, domina il mondo delle cave di marmo di Carrara. Il signor Pedrazzi, 60 anni e un passato di anarchia toscana a stento tenuta a freno dalle responsabilità sindacali, i freni, questa volta, non li vuole usare: «In tutta questa zona, in ogni cava, vige una regola forcaiola per le assunzioni. Contratti a termine, per 3/4 mesi, da firmare rigorosamente in bianco, così non esistono diritti; solo doveri. Quello di lavorare ininterrottamente per 10/12 ore al giorno. E stare zitti, anzi ringraziare per il lavoro ?concesso?. Se no, via, a casa: licenziati, tanto di gente che ha bisogno di lavorare se ne trova sempre. Qui a Massa il tasso di disoccupazione è pari al 20% della forza lavoro, una percentuale che è ai livelli di Reggio Calabria». Una cultura che punta senza esitazioni sui premi di risultato, a tutti i costi. Proprio a tutti. «L?ho inseguito, il Cofferati, ma non si è fatto trovare. Volevo urlarglielo in faccia che i due omicidi sono una conseguenza di questo tipo di politica che lui e i suoi soci hanno portato avanti». E, per la cronaca, Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil, subito accorso a portare la propria testimonianza e cordoglio alle famiglie delle due vittime, è stato costretto proprio dai familiari di Francesco e Marco a ?scappare?, a non sfilare con loro nella manifestazione per il Primo maggio. «Si è reso rapidamente conto che il materiale per una lapidazione qui a Carrara certo non manca». Lo spirito non viene meno, neanche nei momenti più bui: «Lui e gli altri sindacalisti, sono venuti qui, hanno usato belle parole, come al solito; hanno cercato di gettarci il fumo negli occhi, ma dopo anni non funziona più con noi. E infatti, nel pomeriggio, a 50 chilometri di distanza, in un?altra conferenza ha subito cambiato le carte in tavola: ?Siccome a livello europeo si va in questa direzione… bla bla… puntare al ricambio e alla flessibilità… bla bla… nuovo concetto dei diritti dei lavoratori?. Insomma, una serie di bestemmie per un sindacalista, al punto che la testimonianza di un vescovo alla fine è apparsa più a sinistra della sua». Uno scenario, quello descritto da Giovanni Pedrazzi, che appare incredibile per i ?non addetti ai lavori?. In Italia, un?Italia europea, e, come si suol dire, alle soglie del Duemila; le nuove tecnologie, che dovrebbero aiutare l?uomo, intervenire proprio quando il lavoro potrebbe diventare rischioso. E invece… «Non sono certo uno di primo pelo, io, e lavorando nelle cave in tutti questi anni ne ho viste di cotte e di crude. Ma niente di così drammatico come nell?ultimo decennio: la tecnologia, dall?inizio degli anni 80, è intervenuta non per aiutarci nel lavoro, ma per salvaguardare il profitto; anche a scapito della nostra stessa sicurezza». Il signor Pedrazzi descrive il vecchio sistema di lavorazione, con il filo elicoidale, quando la montagna era rispettata e ricambiava il rispetto per gli uomini che la ?coltivavano?. Quindici giorni, un mese il tempo normale di lavorazione di una porzione di marmo; un tempo sufficiente perché gli esperti cavatori recepissero i segnali provenienti dal monte e potessero così correre ai ripari, eliminando i pericoli. «Ora lavoriamo con il filo diamantato, dai 40 minuti al massimo di otto ore per un cubo di marmo. Più fatica e più ore di lavoro di seguito, ad armare e disarmare in continuazione porzioni di cava. E la montagna è stata aggredita, viene lavorata ai fianchi, e scavata dal sotto con le mine. Ritmi di lavoro pazzeschi che non permettono più di ascoltare i messaggi che la nostra collega di lavoro ci manda». E così ha avuto inizio quella che il signor Pedrazzi definisce la Caporetto dei lavoratori alle cave. Le macchine in salvo Il gigante bianco-venato, anche prima dell?Asl, aveva parlato, aveva mandato dei messaggi di pericolo ai piccoli esseri che le giravano e si affaticavano attorno. «Lei è dei nostri, ci tiene anche lei che il nostro rapporto sia basato sul reciproco rispetto». E Giovanni Pedrazzi, a questo punto, toglie completamente il piede dal pedale del freno: lancia un?accusa, la più vergognosa di tutte. «I giorni precedenti alla frana, ci era stato ordinato di spostare i macchinari dallo spartiacque, come noi chiamiamo la cima; perché i proprietari temevano che un crollo potesse fargli perdere i costosi strumenti. Insomma, le gru sono state considerate di maggior valore della vita umana. Non potrò più dormire tranquillo alla notte, fin quando i responsabili non saranno sbattutti in carcere». La cava incriminata è stata immediatamente chiusa, sottoposta alle indagini di rito. Il processo dovrebbe avere luogo tra un mese e mezzo. L?attesa in città è molta: ci si aspetta una lezione per i due proprietari, e per tutti gli altri coinvolti nella sporca faccenda. «Mi accontenterei anche di un paio di mesi di galera, ma ho paura che possano farla franca ancora una volta, dopo che il Parlamento ha sancito la depenalizzazione degli incidenti-omicidi sui luoghi di lavoro». E, intanto, una cifra apparentemente senza nesso eccheggia nella sede dei Cobas Marmo di Carrara: 626, la legge sulla prevenzione degli incidenti sul lavoro. «Sembrava proprio un toccasana, quando è stata emessa. Anzi, sembrava proprio di vivere in un bel Paese, con tutte le leggi del mondo, giuste e civili. Peccato, però, che poi non ci sia mai nessuno che le faccia rispettare». L?opinione di Rino Pavanello Una settimana tutta in nero Una settimana nera, nerissima, quella che ha preceduto il primo maggio, festa del lavoro. Una settimana nera con i suoi nove morti sul lavoro in cinque giorni. Eppure non è questo un dato, ahimé, nella media. 1.200 morti sul lavoro in Italia e 220.000 nel mondo; 1.000.000 di infortuni in Italia e 220 milioni nel mondo, ogni anno. Ma anche nell?Europa dell?euro i dati sono sottostimati: nella ?ricca? Italia, ad esempio, l?Inail non computa tra gli indennizzi tutti i lavoratori morti che non hanno eredi diretti (coniuge o figli): significa ragionare su un dato inferiore di circa il 30% a quello reale, significa che non si computano almeno 300 morti all?anno. Il costo economico della mancata prevenzione in Italia ammonta a ben 55 mila miliardi di lire annue, ben 10 mila miliardi nel solo settore edile e delle costruzioni. Il costo della mancata prevenzione nel mondo ammonta a una cifra impronunciabile: centodiecimilioni di miliardi di lire. Oltre a nuove norme e sanzioni per i datori di lavoro inadempienti che cosa si può fare? In Italia abbiamo una buona legge, la legge n. 626 del 1994, ormai completamente in vigore da sedici mesi. Questa legge imponeva un grande sforzo e impegno nella direzione di una cultura della prevenzione ed è proprio questo aspetto della legge a essere stato più disatteso. Bisogna fare ogni sforzo per ripartire dall?informazione e dalla formazione dei lavoratori. Nel mondo, ancor di più, occorre realizzare ampie iniziative di informazione e formazione. Per questo l?Associazione Ambiente e lavoro e la Federazione mondiale dei lavoratori tessili hanno promosso, proprio in occasione del primo maggio, ?Il filo della vita?, iniziativa che consente: a) la distribuzione in 120 Paesi del mondo di un videofilmato sulla sicurezza sul lavoro e una dispensa sulla salute delle donne che lavorano, entrambe in quattro lingue; b) un servizio on line su Internet (www.amblav.it) che sarà attivo da giugno e fornirà risposte a quesiti sulla sicurezza. segretario associazione Ambiente e lavoro


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