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Sfidare il G8: roba da teppisti?

In queste settimane si sono ripetuti gli appelli di chi il prossimo luglio a Genova ha chiesto il rispetto del proprio diritto di parola. E i politici? Troppo impegnati in campagna elettorale

di Giuseppe Frangi

Le elezioni del 13 maggio, comunque vadano, un danno l’hanno già prodotto. Consegnano al futuro un paese profondamente nevrotico, in cui il gusto della vittoria è sovrastato da quello per la disfatta dell’avversario. Dove le differenze (politiche ma non solo) sono macinate dagli opposti fondamentalismi. Peccato, perché invece il paese non mediatico, il paese concreto meriterebbe di essere rappresentato assai meglio, nei propri bisogni e nei propri progetti. Prendiamo un appuntamento che trascorsa la buriana elettorale, salirà in cattedra e a cui Vita dedicherà tanta attenzione a partire dal prossimo numero: il G8 di Genova. È previsto per il prossimo luglio, in una città bellissima ma logisticamente molto complicata. Da mesi associazioni e Organizzazioni non governative stanno preparandosi puntigliosamente all’appuntamento. Ne è testimonianza l’assalto del pubblico agli stand dedicati al tema, alla recente fiera della solidarietà, tenutasi a Padova settimana scorsa. Da mesi questi piccoli o grandi gruppi hanno fatto sapere che non intendono affatto vivere il G8 come evento mediatico, ma nessuno, a cominciare dal presidente del consiglio uscente Giuliano Amato, ha colto la portata vera della loro richiesta. Del resto questa è una fetta di popolo che si identifica più nel mondo delle differenze che in quello dei fondamentalismi, e quindi è comprensibile che non abbia trovato audience. Peccato! Ma per quanto la politica potrà considerare marginale un movimento che cura con estrema intelligenza e conoscenza di causa gli interessi di qualche miliardo di persone? Forse non ci si è resi conto della portata del processo di Pretoria, dove per la prima volta è stata sanzionata a livello giuridico la prevalenza del diritto alla salute su quello della proprietà intellettuale e del libero commercio. Se negli anni 80 e 90 la via della giustizia ha percorso la strada dei diritti umani e civili, oggi è stato aperto un altro fronte, quello per un diritto che è il fondamento concreto a tutti gli altri diritti: il diritto economico. Davvero questa è la prima vera opposizione al modello uscito vincente dalla caduta del Muro di Berlino. Ed è un’opposizione che non si chiude più nel ghetto di un’ideologia ma accetta la sfida sul terreno stesso del nemico: quello del benessere e del progresso economico. E’ come se si dicesse: noi abbiamo in mano le chiavi di un futuro che è molto meglio del vostro, accettate la sfida? Per capirci meglio vi raccontiamo di un peronaggio di cui Vita, settimana prossima, presenterà il nuovo libro che sta facendo tanto discutere negli Stati Uniti. Si chiama Hernando De Soto, è un economista peruviano che il Time ha definito come uno dei cinque maggiori innovatori di inizio millennio. Ebbene, la sua tesi che sta scuotendo le teorie degli economisti americani, è questa: è la mancanza del diritto la causa prima del non sviluppo. Cifre alla mano De Soto ha dimostrato che gli abitanti dei paesi poveri hanno degli attivi notevoli. Li ha anche stimati in 9 trilioni di dollari, una cifra superiore a tutti gli aiuti finanziari ricevuti dal 1945 ad oggi. Ma queste attività non sono capitale, cioè beni legali e tutelati. I risparmi non sono in banca, le case al 90 % sono illegali, e quindi non fanno capitale. A loro non mancano le risorse, manca il diritto: quello che dovrebbe permettere a un contadino peruviano di costruiorsi una casa senza dover passare per i 728 passaggi burocratici contati da De Soto. E il diritto non costa niente. Sicuramente costa meno di tante dispendiose campagne umanitarie di cui il mondo ricco si fa vanto. E c’è qualcuno che pensa ancora che l’opposizione al G8 sia una faccenda da teppisti…


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