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Social innovation? Prima bisogna far macerie del sistema

A tu per tu con Geoff Mulgan, uno dei principali teorici mondiali della social innovation, che dice: «Per il Terzo settore è il momento di fare il salto di qualità»

di Mattia Schieppati

È arrivato a Milano, in occasione del ciclo di incontri Meet the Media Guru organizzati presso la mediateca Santa Teresa, per parlare di social innovation. E Geoff Mulgan su questo tema – tutto di frontiera, ma ancora molto labile nei suoi confini – un guru lo è di certo. Il suo nome è legato alla nascita e allo sviluppo di due importanti enti privati inglesi che si collocano a metà strada tra charity, think thank e social investor: la Young Foundation (che ha diretto dal 2004 al 2011) e il National Endowment for Science, Technology and the Arts (Nesta) di cui è attualmente Amministratore Delegato. Due enti privati che stanno diventando, in Inghilterra ma non solo, un punto di riferimento per tutti coloro che desiderano stimolare “social innovation”. Ma è stato anche direttore dello “Strategy Unit” del governo ai tempi del primo ministro Tony Blair, e quindi conosce bene anche "l'altro lato" della medaglia, ovvero i vincoli e le opportunità con cui il corpaccione statale può favorire, o seppellire, qualsiasi processo di innovazione sociale. Questo doppio binario fa da filo conduttore alla chiacchierata che ha concesso in esclusiva a Vita.


D. Quello della "Social innovation" è diventato un tema molto di moda in queste ultime settimane. Un termine usato per talmente tanti ambiti che rischia di perdere la sua specificità. Può darci una definizione di social innovation che stia in un tweed di 140 caratteri?
R. È la stessa domanda che mi hanno fatto i Commissari della Commissione Ue quattro anni fa, quando l'Unione ha cominciato a ragionare di social innovation. Ci provo: significa innovazioni che sono "sociali" nei mezzi che impiegano, e nei fini che si propongono di ottenere. Provo ad allungarmi un po': innovazioni che creano valore sociale, incontrano bisogni sociali, e danno risposte attraverso la forte capacità della società di agire.

D. Quali sono gli ingredienti che producono l'innesco giusto per sviluppare innovazione sociale?
R. Più che singoli ingredienti, bisogna cambiare completamente la mentalità di approccio, e agire contemporaneamente su più ambiti: bisogna mettere a punti nuovi impianti legislativi, che prevedano forme innovative di imprese ad alto impatto sociale; bisogna dar vita a una nuova finanza, che le sostenga, servono incubatoi e acceleratori di impresa dedicati a questo ancora fragile mercato, serve un diverso approccio da parte dei governi sul fronte del procurement, e serve anche un cambiamento radicale del modo di pensare e di operare delle grandi corporations profit, perché ripensino la loro supplii chain prevedendo e dando spazio a partnership e collaborazioni con imprese e organizzazioni sociali.

D. Una rivoluzione non da poco. È il momento storico giusto per mettere in atto una tale rivoluzione, vista la crisi che non molla?
R. La crisi è una grandissima opportunità, è l'incubatore più importante per permettere questo cambiamento. Lo è oggi, ed è stato così a inizi anni '30 del Novecento, dopo il grande crack del '29. Tutte le piccole o grandi crisi del secolo scorso sono state un acceleratore di cambiamento, e così è anche ora: le crisi indeboliscono le strutture consolidate, fisiche e mentali, e aprono spazi nuovi. In genere succede che nei primi anni di crisi tutti rivolgono i loro sforzi al tentativo di tenere in piedi lo status quo, a ricostruire i pezzi che via via si sgretolano. Solo quando diventa chiaro – e ci vuole qualche anno – che questo mettere le pezze non è possibile, allora si comincia a pensare in maniera differente. Si comincia a pensare a come costruire qualcosa di completamente nuovo. Io credo che per ora siamo ancora nella prima fase di questo processo.

D. In attesa che tutto crolli, insomma, da dove si può cominciare a ripartire?
R. Un buon modello è quello che abbiamo avviato in Gran Bretagna con la mia organizzazione, il Nesta, giusto un mese fa. Abbiamo dato vita a un "joint team" insieme al Cabinet Office del Primo Ministro: un gruppo di persone – metà sono ricercatori del Nesta, metà dipendenti dell'ufficio del Primo Ministro che stanno lavorando insieme per capire come supportare forme di social innovation in settori chiave per il Paese come la sanità, l'educazione, il sostegno al lavoro… Se lo sviluppo della social innovation fosse totalmente in mano al Governo, si scontrerebbe con i vincoli e i lacci della burocrazia, e non si andrebbe da nessuna parte. Se invece si trattasse di un'iniziativa totalmente privata, portata avanti solo dalla nostra organizzazione, non avrebbe quel supporto necessario, di strumenti, e anche economico, per avere successo. Grazie  acquista forma ibrida, invece, possiamo permetterci di "sperimentare" liberamente forme di social innovation, ma anche di poter contare su quelle sinergie tra diversi ministeri che sono fondamentali per costruire un percorso che abbia un futuro.

D. Si ragiona meglio di social innovation quando si lavora col pubblico, o quando si avviano partnership con imprese del mondo profit?
R. Ci sono casi fortunati di ottime partnership intraprese con aziende private. Ma bisogna ricordarsi sempre che – per ora almeno – il fine di un'impresa profit non è il bene comune, non è immaginare programmi di integrazione per gli homeless, o di tutela sanitaria per i meno abbienti, ma è aumentare il proprio fatturato. Quello di lavorare per il bene comune è invece lo scopo precipuo di ogni Governo. Quindi, se devo scegliere…

D. E il terzo settore? È un buon partner?
R. Non è un partner. Da sempre, il Terzo settore è l'ambito che naturalmente produce innovazione sociale. Il non profit svolge un ruolo chiave d'innovazione sia nei paesi in via di sviluppo, sia nelle nostre "vecchie economie": pensiamo solo a quanto non profit c'è, e opera, in quello che è il settore chiave per tutti i sistema-paese, la sanità. In Gran Bretagna ci sono circa 36mila organizzazioni non profit attive in ambito sanitario. Senza di loro, la sanità pubblica andrebbe al collasso. E così immagino che sia anche in Italia… Una cosa però va detta: la sfida che il non profit deve continuamente porsi, anche forzando la propria mentalità, è quella di sentirsi sempre sfidato a essere innovativo. Molto spesso il non profit, siccome fa, fa tanto, e fa bene, pensa di essere più innovativo di quanto non sia in realtà. Ecco, dovrebbe invece avere l'umiltà di mettersi in discussione più di frequente, immaginando costantemente nuovi modi per fare quello che sta facendo, e sperimentare queste innovazioni, magari su piccola scala, per poi farle crescere se funzionano.

D. È possibile immaginare uno standard di misurazione dell'impatto sociale reale di un'iniziativa di social innovation?
R. È un tema molto caldo, su cui sento tanti pareri differenti. Tanti pensano che la social innovation sia come la finanza, dove tutto è misurabile, traducibile in numeri comparabili, dove si può calcolare il Roi di ogni azione. Io sono convinto di una cosa: non esiste, e non può esistere un unico standard di riferimento per "misurare" l'effetto sociale di un'innovazione. Ammesso che esista uno standard, non può che essere sbagliato. Come si può pensare di riportare a un unico standard di misurazione un'iniziativa per abbattere le emissioni di co2 in una città, e un'iniziativa per contrastare l'abbandono scolastico dei ragazzini unger 16? Se porti tutto a un unico numero, sono più le informazioni utili che ti perdi, di quelle che riesci ad analizzare e mettere a valore. Per questo, quello su cui noi lavoriamo per decidere, per esempio, quali progetti sostenere economicamente, sono cluster di misurazione, che permettano di comparare esperienze attive negli stessi settori: il che permette anche di mettere in condivisione le diverse esperienze.

D. Viene dal suo Paese la grande "idea" della Big Society. Idea che però è rimasta molto sulla carta, e in questi ultimi giorni sta alzando definitivamente bandiera bianca. Cosa è andato storto? E questo avrà un contraccolpo sullo sviluppo del processo di social innovation?
R. (…segue un minuto buono di sguardo perplesso…). Big Society è stata una bellissima etichetta di marketing che a un certo punto il Governo conservatore la speso per dire: "Hey, noi siamo Conservatori, ma non siamo più quelli di Margareth Tatcher: siamo attenti ai bisogni sociali, siamo vicini al mondo del non profit". Come tutte le etichette, però, prima o poi ha mostrato la sua fragilità. In Gran Bretagna da vent'anni, qualsiasi tipo di governo ha sempre sostenuto la crescita dell'impresa sociale, è sempre stato attento alle non profit, compreso il governo attuale, sia chiaro. Solo che il fatto di mettere quell'etichetta, e di spenderla in un modo mediaticamente così forte, ha creato attese che poi non erano sostenute da nessun vero piano operativo, da nessuna strategia reale.


CHI È
Geoff Mulgan è Ceo del NESTA – National Endowment for Science, Technology and the Arts, ed è stato dal 2004 al 2011 a capo della Young Foundation. Ha ricoperto numerosi incarichi pubblici ed è stato Director of Policy e direttore dello “Strategy Unit” del governo di Tony Blair, ha fondato e diretto il centro studi Demos ed è stato reporter per la BBC, ha fatto parte del board della Work Foundation, dell’Health Innovation Council, della rivista The Policy Quarterly, del Design Council ed è stato presidente di Inolve, istituzione del governo inglese – quasi unica nel panorama mondiale – che mira a coinvolgere i cittadini nella ricerca medica. Mulgan è presidente dell’associazione internazionale Social Innovation Exchange, un network di oltre 5000 persone impegnate a promuovere la formazione e lo scambio di best practice in tema di innovazione sociale.È visiting professor presso la London School of Economics, l’University College London e la Melbourne University, oltre ad insegnare regolarmente presso la China Executive Leadership Academy, Il suo ultimo libro si intitola The Locust and the Bee ed è edito dalla Princeton University Press.


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