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Cooperazione & Relazioni internazionali

Testimonianza dal Tibet. Le monache ferite

Sono dello stesso ordine del Dalai Lama. Hanno fatto cinque anni di carcere dopo una protesta pacifica. Ecco Il racconto del loro dolore. E della loro lotta

di Aldo Daghetta

Una piazza come ce ne sono tante in giro per le città del mondo, un edificio sede dell?autorità locale e cinque monache davanti al portone che gridano slogan per l?indipendenza del loro Paese, per la libertà religiosa e a sostegno del loro capo spirituale in esilio. Una protesta pacifica, solo verbale, che viene spazzata via brutalmente dalla polizia. Le monache vengono incarcerate e condannate senza un equo processo ad anni di galera per «azione separatista» e «turbativa dell?ordine pubblico». Una normalità per il Tibet, da 50 anni a questa parte, da quando la Repubblica popolare cinese, con una guerra che ha causato migliaia di morti e distrutto il 95% di templi, monasteri e luoghi di culto, ha invaso e occupato questo Stato imponendo un clima di pesante repressione. Sveglia alle 5 Vita ha avuto la possibilità di incontrare Passang Lhamo e Choying Kunsang, due di quelle monache dell?ordine Gelung, lo stesso del Dalai Lama, che hanno partecipato alla protesta nell?ex capitale e per questo sono state incarcerate rispettivamente per cinque e quattro anni, durante i quali hanno subìto ripetute torture e maltrattamenti sia fisici che psicologici: in questo periodo Amnesty international ha organizzato un tour mondiale affinché possano portare a più persone possibile la loro drammatica testimonianza. «Le nostre giornate durante gli anni del carcere iniziavano alle cinque del mattino», raccontano le due monache, «con interminabili corse nel cortile del penitenziario, dopo ore iniziavamo a lavorare a maglia e ognuna di noi doveva produrre il quantitativo richiesto di vestiti altrimenti veniva picchiata. Nel pomeriggio ci facevano fare ?esercizi ginnici? fino allo sfinimento. Vi erano poi i momenti di rieducazione politica in cui venivano dei funzionari civili e ci imponevano di cantare tutti in coro l?inno cinese e di bestemmiare il nome del nostro Dalai Lama. Chi si rifiutava veniva percosso e messo in una stanza buia e fredda per giornate intere». Condizioni carcerarie inumane, coercizioni e soprusi che si estendono anche una volta fuori dal carcere. Infatti, le due monache, liberate rispettivamente a febbraio e maggio 1999, furono subito convocate dalla prefettura della loro città natale e qui informate di essere state bandite dalla società e interdette da ogni monastero. L?unica via è la pace «Era impossibile accettare tutto questo, bisognava scegliere se rassegnarsi a vivere sino alla morte in simili condizioni o tentare la fuga: riuscimmo nel maggio del 2000 con un viaggio a piedi di dieci giorni a raggiungere Dharamsala, in India, sede del governo tibetano in esilio. Da allora la nostra vita ha come unico scopo il tentativo di non permettere il dissolversi della nostra cultura millenaria e la testimonianza ai popoli occidentali della nostra esperienza personale». Un?esperienza che ha segnato indelebilmente queste due giovani religiose di 26 anni, privandole degli anni più belli della loro vita, ma non piegando il profondo sentimento che le porta a ribadire che «non può esserci soluzione violenta alla questione tibetana. L?unica via in cui crediamo è quella della pace. A ogni costo». è dal 1965 che la Commissione per i diritti umani dell?Onu non emette più una risoluzione almeno di condanna nei confronti della Cina. Quando pochi anni fa la Danimarca si fece promotrice di un?azione presso la Commissione per cercare di inserire nell?agenda dei lavori una mozione nei confronti della Cina per il suo comportamento con il popolo tibetano, tutti i Paesi si astennero: Francia e Italia per prime.


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