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Sanità & Ricerca

Tornare a vivere, si pu

Nessuna nuova cura. Ma nei Paesi ricchi diminuiscono le morti. «Adesso bisogna creare spazi per il reinserimento sociale di chi è affetto da Hiv». Molti i progetti presentati per [...]

di Redazione

Ma cos’è successo a Ginevra? Provo a rispondere in questi appunti sparsi, scusatemi, di cinque giorni di Conferenza vissuti intensamente. Punto uno: da questi convegni internazionali in realtà non emerge quasi mai nulla di nuovo. Ma servono perché l?Aids torni al centro dell?attenzione dell’opinione pubblica; e in Italia ce n?era davvero bisogno, dopo il black-out di informazione che dura da circa due anni, se si eccettuano i casi dei cosiddetti ?untori? che tanti guai hanno prodotto nella coscienza (chiamarla così?) degli italiani. Ginevra è stata una vasta e colorata vetrina per gli scienziati e per le case farmaceutiche, ma anche per le associazioni non governative e di volontariato che quest?anno hanno rese più vive le lunghe giornate della Conferenza. Proprio la massiccia presenza di Ong, a cui è stato ?permesso? per la prima volta di confrontarsi con le baronie scientifiche e aziendali, ha portato nuovi temi di discussione. Ogni anno viene lanciata una tematica particolare; questa volta si è voluto partire dai trenta milioni di africani affetti dal virus dell?Hiv. Un problema falso, a mio parere, perché la realtà dell?Africa è drammatica non certo a causa dell?Hiv. L?Africa è sottosviluppo, denutrizione, mancanza di acqua, colera, tubercolosi e, alla fine, anche Aids. Io credo che l?associazione ?Act up?, che ha rilanciato la problematica anche con l?iniziativa dei sieropositivi che hanno scalato il Kilimangiaro, abbia voluto fare una provocazione; l?Aids, allora, può essere apripista perché tutti i problemi dell?Africa acquistino cittadinanza mondiale. La Conferenza di quest?anno è stata comunque particolare: non sono emerse nuove cure o nuove speranze. Una delusione, se volete, ma che ha permesso di concentrarsi sui problemi reali che riguardano la situazione attuale della lotta al virus. In questo senso si è parlato di accessibilità alle cure, onerose ma soprattutto pesanti per chi le assume, e della ?nuova? categoria a rischio a cui bisogna assolutamente far arrivare il messaggio di prevenzione, ossia le donne eterosessuali, tra le più esposte per una completa mancanza di informazione. L?aspetto di una rinnovata socialità per chi è affetto da Hiv, invece, perché ci troviamo finalmente con una situazione diversa rispetto agli altri anni. Adesso di Aids si muore molto meno e la problematica del reinserimento sociale del sieropositivo diventa prioritaria. Ma prima di fare questo, bisognerà puntare su una maggiore compliance, l?adesione totale verso le cure, che spesso sono vissute dai sieropositivi come un vero e proprio lavoro. La Glaxo Wellcome e la Merck hanno presentato le loro ricerche per una riduzione del numero di pillole, ma ancora non ci siamo. Per questo si è discusso molto sui servizi da offrire a chi è in cura, le cosiddette facilities, da un banale porta-pastiglie fino ad arrivare a dei veri programmi personalizzati di aiuto. Non si è più parlato di morte, quindi, ma di rinnovata progettualità, di rieducazione del sieropositivo al rientro nel mondo del lavoro (ma anche della rieducazione del mondo del lavoro a reinserire i sieropositivi); fino ad arrivare una nuova sessualità sicura, un diritto per chi vuole tornare a vivere. A queste problematiche, vorrei aggiungerne altre due, di cui si è parlato troppo poco. Da un lato il rapporto tra carcere e Aids, e l?impossibilità per i detenuti sieropositivi di accedere alle cure. Dall?altro le terapie per l?Aids pediatrica: mi sembra ovvio che i bambini non possano affrontare una terapia come quella di noi adulti; ma, d?altro canto, sono ancora poche le ricerche in questo senso. Probabilmente perché ci sono pochi interessi economici. È indubitabile, infatti, che l?Aids rappresenti un grosso business per molti; tuttavia le grandi industrie chimiche sono le uniche a spendere soldi nella ricerca.

Rosaria Iardino


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