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Un bibliomane (pentito) a Festivaletteratura. Intervista a Guido Vitiello

di Jacopo Guerriero

Come un otaku ossessivo – compulsivo a suo agio solo nel rapporto con la forma libro e i suoi derivati: è l’eroe post classico e post  umanistico teso al consumo culturale e alla scoperta del mondo – malgré lui – come grande narrazione. Leggi Guido Vitiello –I turbamenti di un giovane bibliomane, Cult, 12 euro, 192 pp. – e scoprirai eziologia e profilo di un immaginario ibrido, quello di chi  sa sposare l’infinitamente alto e l’infinitamente pop  (in quarta di copertina leggiamo «Ernst Jünger e gli Ufo, Cornelio Agrippa e Homer Simpson»). Saggi (misura bonsai) che con ironia raccontano lo scontro ilare-tragico del bibliomane -il tipo psicologico si qualifica anche come nerd gutenberghiano, apprendiamo- con la realtà, sempre sfuggente e sempre oscena, mai precisa come la biblioteca ideale che è quella dell’anima, ovvero l’archivio dati mentale –di personaggi, storie, avventure intellettuali di raffinatissima selezione – che il bibliomane accumula facendo pure della vanità la sua cifra. Partiamo da qui per una conversazione con l’autore che avviene in occasione della sua partecipazione al Festivaletteratura di Mantova.

Diciamo qualcosa dell’impossibile vocazione del bibliomane: considerando che, come insegna ogni buon millenarismo, il mondo lo cambiano gli illetterati, notando che, come scrive Lucien Polastron, il libro è il Doppio dell’uomo, l’aspirazione di categoria quale può essere? Forse l’incoscienza organizzata contro il principio di realtà?

Dubito che la categoria possa trovare posto in una qualunque filosofia della storia. Tutt’al più la funzione storica del bibliomane potrebbe essere questa: leggere e collezionare libri di filosofia della storia, mentre la storia scorre beatamente altrove. I bibliomani non smuovono nulla, certo, ma non è neppure vero che il mondo lo cambiano gli illetterati: a guidarli (e per lo più a mal consigliarli) sono di solito proprio dei letterati – giacobini, bolscevichi e intellettuali déclassés di vario genere. Ma sono letterati di tutt’altra natura rispetto al mio innocuo bibliomane: si tuffano nei libri per uscirne al più presto e maneggiare la realtà con le armi che hanno attinto tra le pagine. E quando impugnano la penna, scrivono per lo più libri orrendi (hai mai letto Lenin?). Per il bibliomane la realtà non è un campo di battaglia ma un miraggio, è un’espressione geografica, anche se gli piacerebbe un giorno visitarla e scattare qualche fotografia. Se il libro è un doppio dell’uomo, il bibliomane è un doppio del libro: rilegato in pelle umana, come le poltrone di Fantozzi.

Mi rendo conto di essere già partito male con la prima domanda: dovevo chiederti, magari convocando Freud, del ripudio, agli esordi del libro, dell’etichetta di bibliomane (“Ora che non sono più bibliomane…”). Sospetto sia una menzogna, pure cerchiamo di insegnare come guarire a chi lo volesse. Perché, a dirla con la mitologia, la vita del bibliomane sta a metà tra Prometeo (l’impulso continuo ad arricchire la propria biblioteca) e Sisifo (tutto leggere, tutto catalogare). Dura vita…

Dura simil-vita, semmai, tanto per tornare alle metafore da pellettiere. Ma io, come forse sai, preferisco gli esempi di Tantalo e di Mida: come il titano della mitologia, il bibliomane non riesce mai a raggiungere la realtà; e se pure ne acciuffa un lembo, al suo tocco si trasforma subito in letteratura – che è come l’oro del re sventurato. Ma ti assicuro che sono davvero un ex bibliomane, un disintossicato. Forse accumulo perfino più libri di prima, ma l’oggetto-libro ha perso, ai miei occhi, molta della sua aura, del suo carattere di feticcio. Diciamo che sono un bibliomane secolarizzato.

Questa nostra conversazione avviene in occasione della tua partecipazione al Festivaletteratura. Anche quest’anno l’abituale (noiosissimo) gioco di contrapposizioni cui si danno le terze pagine è cominciato: festival no, festival sì; quanto è cheap andarci… quanto è orrido il libro ridotto a merce… quelli che protestano contro Babele da una parte (tra gli altri, quest’anno La Capria e Onofri), quelli che difendono le manifestazioni dall’altra (qui la compagine è complessa: ci sono i sacerdoti del politicamente corretto insieme a chi prende parola per gusto di contrapposizione agli altri, per esempio Veneziani). Tu perché ci vai? A Mantova è pieno di ragazze in birkenstock, è bene che tu lo sappia e so che la cosa non ti sarà indifferente –il bibliomane, si dice nel libro, è terrorizzato dalle ragazze in birkenstock.

Considero segno di salute psichica il non dedicare più di quindici secondi di tempo mentale a dibattiti del genere “festival sì/festival no”, che non hanno ai miei occhi più dignità delle discussioni sulla crisi della musica fatte in occasione di Sanremo. O almeno suppongo che sia così, perché gli articoli sui festival non li leggo, e apprendo da te l’esistenza di una polemica in corso su Mantova. Né d’altro canto ho mai letto un articolo sui premi letterari, o contro i premi letterari, o sulla questione delle “scuderie” editoriali. Tutto quel che c’è da sapere della società letteraria e dei suoi riti, per quel che mi riguarda, è racchiuso in un volumetto di J. Rodolfo Wilcock, Il reato di scrivere, curato da Edoardo Camurri per Adelphi. Perché vado a Mantova, allora? I maliziosi penseranno: per soldi (magari!), ma in verità ci vado in viaggio di piacere. Non ci sono mai stato, pare sia una bella città, mi hanno invitato a moderare incontri pieni di bibliomani (c’è pure Alberto Manguel, un fuoriclasse della bibliomania), ed è tutto qui. Quanto alle Birkenstock, ogni 21 marzo, equinozio di primavera, scrivo su Facebook questa frase: “La stagione delle minigonne è anche la stagione delle Birkenstock: come spiegare ai miei ormoni questa lampante contraddizione?”. Le Birkenstock autunnali non corrono questo rischio: sono puro orrore senza mescolanza, e i miei ormoni possono dormire sonni tranquilli.

Torniamo però alla tua natura di bibliomane ripudiata: che è successo, ti sei messo a lavorare? Ovviamente scherzo, è solo che sono un pigro impenitente ma.. in linea di massima pubblicare è comunque un mezzo per un fine. Leggere, invece, è solo un piacere. Un grande critico messicano, Gabriel Zaid, ha scritto che credere o non credere nei libri come strumenti d’azione è sostanzialmente una questione di fede. Concordi?

Se guardi bene la fotografia di copertina dei Turbamenti, dove ci sono un po’ di miei libri gettati a terra alla rinfusa, noterai che ce n’è uno di Zaid, Los demasiados libros. Lo seguo sempre con piacere su Letras Libres, ma questa sua affermazione mi sembra troppo generale per cavarne qualcosa. Che s’intende per strumento d’azione? Spaccare noci con un volume d’enciclopedia? Ci sono libri che leggo per piacere, altri che leggo per dovere, altri che leggo per lavoro, altri che leggo per amicizia, altri ancora che leggo per necessità interiore, e così via. Nella mia lunga adolescenza da bibliomane c’era un’ulteriore categoria: i libri letti come strumento (tortuoso, e il più delle volte fallimentare) di seduzione, che a suo modo è una forma d’azione, o di azione surrogata. E quanto alla pigrizia, che coltivo a un grado eroico, ha per me un’unica eccezione: scrivo solo quei libri che so per certo che nessun altro scriverà, e che da lettore mi piacerebbe leggere. Altrimenti, preferisco attendere in poltrona.

I Libri lo chiariscono: per il Talmud e i Veda esisteva una biblioteca già prima della creazione. Chissà che fine hanno fatto i libri seppelliti da Noè prima del diluvio (nell’Arca non c’era posto e io credo anche ci fosse un rischio legato al peso). Ora, è l’anno più severo per le librerie indipendenti, quelle in cui trovi quello che non cerchi, quei luoghi che sono il solo paradiso per chi, nell’adolescenza, legge Camus e ascolta Elio. Facciamolo, cediamo per una volta alla tentazione del moralismo, indichiamo a chi ci legge tre ragioni per cui non andare da Feltrinelli o Mondadori (puoi anche fare come Omero secondo Voltaire: a chi gli avesse chiesto dove era finita l’anima di Sarpedonte, egli avrebbe risposto con versi armoniosi cavandosi d’impaccio).

Hai omesso la terza rotta, che è quella su cui mi sono immesso quindici anni fa ricavandone soddisfazioni incomparabili: il commercio elettronico di libri nuovi, usati e antichi. Da Feltrinelli o da Mondadori vado in veste di curioso, per vedere cosa c’è di nuovo, e nelle librerie indipendenti faccio la stessa cosa, con un occhio agli editori più piccoli. Per trovare quello che non cerco, poi, vado per bancarelle, o per biblioteche. Per tutto il resto c’è la rete, che surclassa – e di molto – tutti i vecchi paradisi del bibliomane. Anche Noè, se potesse, navigherebbe in quelle acque.

Ho letto con interesse sul Corriere il tuo pezzo che analizzava la parabola transmediatica del Libanese, il personaggio di De Cataldo. Che ne pensi quando leggi (se leggi) André Schiffrin? Quanti e quali sono i rischi di feticizzazione del libro oggi? Siamo al dominio della merce? O forse il bibliomane del futuro dovrà semplicemente abituarsi a tracciare costellazioni, mondi? Nel senso: in fondo le nuove tecnologie continuano il trend di abbassamento del prezzo del libro. Ognuno ha in mano in microfono, ormai. Bisogna forse solo stare attenti a che voce si ascolta…

Ho letto poco André Schiffrin, autore da cui sono piuttosto distante per formazione e per cultura. Più che feticismi del libro, però, mi pare di osservare di questi tempi molti casi di feticismo dell’Autore. Ma quanto al non perdersi nella folla di voci, anni fa mi capitò di paragonare, per scherzo, la Repubblica delle Lettere al raduno annuale degli scemi del villaggio in Amore e guerra di Woody Allen. Il lettore è come un viandante che debba destreggiarsi in un villaggio popolato da megalomani logorroici e attaccabottoni (gli scrittori), ciascuno convinto di essere Napoleone o Shakespeare, ciascuno convinto che la storia che ha da raccontare meriti ore del tuo tempo prezioso. Tra questi si nasconde anche il vero Shakespeare, ma vai a trovarlo. Ecco, il critico – il critico giornalistico, il recensore intendo – dovrebbe essere l’amico scaltro che cerca, per quanto possibile, di preservarti da incontri spiacevoli.

Naturalmente vorrei chiederti altro. Ma chiudo con un ringraziamento: per il capitolo sulla nascita della tragedia dalla festa delle medie. Ammettilo, è stato quello il momento dell’agnizione. E’ lì che hai capito di essere bibliomane…

No, forse alle medie ero ancora classificabile come nerd generico, malgrado avessi già in curriculum tre libri di cucina scritti a sei anni, la trilogia Cucina alternativa. L’aggravante della bibliomania si è manifestata dopo. D’altro canto, la specializzazione del nerd comincia con la divaricazione dei corsi di studio: c’è chi diventa un nerd scientifico-informatico, chi un nerd letterario. Io scelsi il Liceo classico, e ne seguì tutto il resto. Di recente ho ritrovato la mia agenda scolastica del quarto ginnasio, una Smemoranda, e ho scoperto con un certo sgomento che avevo trascritto a memoria, parola per parola, mezzo libretto del Don Giovanni. Col senno di poi, quello può essere letto come il primo segno del tracollo.


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