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Media, Arte, Cultura

Una atto d’amore in pellicola

Intervista a Xavier Beauvois, regista de «Gli uomini di Dio»

di Riccardo Bagnato

Restare o partire? Questa volta, però, non c’entrano nulla gli elenchi di Fazio e Saviano. Quello di cui stiamo parlando è un dramma realmente accaduto e non un format televisivo. Un dilemma fra la vita e la morte che attraversa per intero l’ultimo film di Xavier Beauvois, Des hommes et des dieux (“Degli uomini e degli dei”), nelle sale in queste settimane.

Un film che ha conquistato tutti, anche il grande pubblico.

Dopo aver collezionato nel proprio palmares il premio della giuria a Cannes e il Prix Jean-Vigo nel 1995 con Non scordarti che stai per morire, sul dramma di un uomo affetto da Aids, e una nomination al César come miglior film con Il piccolo luogotenente (del 2005), Beauvois ha voluto raccontare la storia dei nove monaci trappisti dell’abbazia Nôtre-Dame de l’Atlas di Tibhirine, nell’Algeria occidentale.

Siamo alla metà degli anni 90; all’unanimità i religiosi decidono di rimanere, di non abbandonare il monastero, di rifiutare l’aiuto dell’esercito che li avrebbe difesi dalle scorrerie delle bande di integralisti islamici, mettendo a rischio la propria vita. «Ciò che mi interessava di più era raccontare l’intelligenza di quei monaci, non tanto la loro fede». Non si nasconde certo dietro a un’improvvisa conversione religiosa Xavier Beauvois, laicissimo regista 43enne, che dalla punta più a nord della Francia – originario di Auchel, piccolo comune della regione Nord-Pas-de-Calais – ha lanciato uno sguardo al di là del Mediterraneo, in quel Paese tanto caro ai francesi quanto controverso che è l’Algeria.

Di certo non è un film religioso.

Si spiega così il disappunto del regista di fronte alla traduzione italiana del titolo al suo lungometraggio: Uomini di Dio. «C’est un viol!», sbotta, «per me è uno stupro! Un tradimento. È che non si può star lì a verificare tutto. Alla fine del film si è stanchi e non si può telefonare in ogni Paese per sapere come verrà presentato il film». Titolo a parte, Beauvois è il primo ad essere sorpreso del successo: «Sentivamo tutti che eravamo in una sorta di stato di grazia mentre lo facevamo. Ma da qui a pensare a quello che è successo dopo…».

È commosso, paradossalmente a disagio sul palco – lui che oltre ad essere regista è anche attore – mentre riceve l’ennesimo premio ?Arte per la pace 2010? per il suo film, assegnato questa volta dal festival ?Science for Peace? di Milano. «Questo riconoscimento lo dedico a mio nonno», dice Beauvois imbarazzato. La premiazione è finita.

Scende. Lo incontriamo nel retropalco. Mentre rigira fra le mani la targa ricevuta, ripensiamo al film, alle vicende dei nove monaci benedettini francesi (due sopravviveranno agli eventi), rapiti dall’abbazia e, secondo la versione ufficiale, uccisi da un gruppo di terroristi nella notte fra il 26 e il 27 marzo del 1996. Uno choc per l’opinione pubblica d’Oltralpe, che all’indomani si sarebbe riversata davanti al Trocadero di Parigi per protestare contro l’eccidio.

Cosa l’ha spinta ad affrontare questo tema?

Un amico mi ha proposto il soggetto. Mi chiedeva un parere e gli ho risposto che mi era piaciuto molto. Allora abbiamo scritto insieme la sceneggiatura in poco meno di sei mesi. Una cosa inimmaginabile, normalmente. Sono rimasto subito affascinato dalla vita di quei monaci, stupito, sono diventati parte di me. E così è successo a tutta l’équipe. È difficile se non impossibile incontrare persone che si interessano agli altri, alla religione degli altri, persone intelligenti, appassionate come in questo caso. La tendenza, invece, è quella di mettere gli uni contro gli altri sulla base di false questioni. In Francia ci hanno letteralmente rotto i coglioni con la questione del burqa, che riguarda in realtà poche persone, per evitare di parlare dei problemi veri.

Che cosa, del soggetto, l’ha convinta di più?

Una volta superati i 40 anni ci si pone delle domande, e ci si rende conto che si è prigionieri di un sistema di risposte quotidiane che impongono il ?fare?.

Nelle città si è costretti ogni giorno a ?fare qualcosa?. Non importa cosa.

Ma questo ?fare? non ha più nulla a che vedere con l’?essere?. C’entra ben poco con la vita. E allora la vita diventa poco interessante. Anche il fatto che da quattro anni vivo in campagna ha un peso, credo mi abbia avvicinato alla cose più semplici.

Come si è preparato per girare le scene?

Mi sono ritirato in un monastero e lì le cose si sono imposte da sole. Al momento di girare una scena, mi sono reso conto che non c’era bisogno di muovere la cinepresa: erano tutte inquadrature fisse. Mi sono anche imposto di trattare il soggetto non come se fosse un fatto di cronaca, ma una tragedia umana.

Uno dei personaggi, frère Luc Dochier, davanti alla domanda se restare o partire dice: «Non ho paura dei terroristi, non ho paura della morte, sono un uomo libero». Qual è il ruolo della fede e quale quello della libertà nel suo film?

Credo che al centro ci sia la conoscenza, che è il vero motore dell’amore. Non si può amare davvero ciò che non si conosce. Il suo contrario è la paura. Basta pensare a quando, per esempio, la popolazione era terrorizzata dalle eclissi. Non si conoscevano i motivi di quel fenomeno e per questo si era terrorizzati. Oggi sappiamo cosa sono, e non si spaventa più nessuno.

Questo vale per i cristiani come per i musulmani. Se si guarda al mondo musulmano ci si rende conto che ovviamente sono persone come tutte le altre.

Veniamo all’aneddoto che è solo accennato nel film. Riguarda la creazione di una moschea all’interno del monastero…

I musulmani del villaggio volevano costruire una moschea vicino al monastero. È il 1993. In un primo momento i fedeli musulmani chiedono ospitalità a padre Christian, il priore, per poter lasciare gli attrezzi e i materiali all’interno dell’abbazia. Avevano paura che durante la notte venissero rubati. Poi si accorsero che erano rimasti senza soldi e non avrebbero potuto finire la moschea: erano solo alle fondamenta. A quel punto è stato lo stesso priore a invitarli a costruirla all’interno del monastero, dove c’era molto spazio.

Un’esperienza di convivenza pacifica, dove la religione non complica, anzi, forse facilita il dialogo.

Nel film, più che di religione, si parla di uomini. Quanto alla fede, ho metà cervello che non crede in niente e l’altra che crede in tutto, perciò cerco di adattarmi.


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