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Cooperazione & Relazioni internazionali

Dall’Oglio: è il ring del mondo

Intervista esclusiva al gesuita fondatore del monastero Deir Mar Musa, oggi in mezzo al conflitto siriano

di Daniele Biella

Voci che si rincorrono, motori, e un sinistro rumore di vetri schiacciati. “Sono nella piazza di Damasco dove pochi giorni fa c’è stato l’ultimo attentato. Sto andando a trovare un anziano il cui negozio è andato in frantumi”. È da tempo oltre la prima linea Paolo Dall’Oglio, 57 anni, padre gesuita fondatore nel 1984 della comunità monastica Deir Mar Musa, stupenda struttura incastonata tra le rocce e il deserto a metà strada tra la capitale siriana e l’oramai città martire di Homs (da mesi sotto le bombe e le efferatezze delle truppe del governo di Bashar al-Assad). Nel giugno 2011, tre mesi dopo i primi moti popolari contro il governo, il religioso, che cura una rubrica fissa sul mensile internazionale dei gesuiti ‘Popoli’, ha preso carta e penna e scritto ai propri superiori: “qui ci sarà la guerra civile, bisogna fare subito qualcosa”. L’appello è caduto nel vuoto, ma Dall’Oglio ha continuato la sua opera di ecumenismo e mediazione. Almeno fino allo scorso novembre, quando gli è stata intimata l’espulsione, poi tramutata in una richiesta di ‘basso profilo’: nessuna critica aperta, telefoni controllati. Lui, comunque, non avrebbe mai lasciato la Siria con il rischio di non tornarvi. “E’ qui il mio posto da cristiano: in mezzo a chi convivo da quasi 30 anni”. Vita l’ha intervistato per il numero in edicola questa settimana, che contiene anche un reportage dal confine con il Libano e la denuncia di Amnesty international sull’uso della tortura da parte del governo.

Come vive la popolazione questi momenti?
Siamo tutti in pericolo. Le strade di Damasco, come di altre città, sono vuote. La gente è chiusa in casa, che sia schierata per il governo o per gli oppositori. La situazione è estrema e l’escalation della violenza è sempre più alta, ma mi auguro un miracolo politico, un nuovo equilibrio nazionale che porti a una democrazia vera, partecipata. Oggi sono tutti divisi: da una parte chi non vuole più l’attuale regime, soprattutto giovani che chiedono più libertà. Dall’altra chi non vuole il cambiamento, perché è sicuro che il dopo sarà peggio o perché ragiona con logiche patriottiche, contro il complotto internazionale.

Lei vede questo complotto?
No, ma vedo che nella violenza attuale pesa in modo sconvolgente l’immobilismo delle forze internazionali. Come si fa a lasciare sprofondare questo Paese senza fare nulla? Obama non fa seguire fatti alle parole per non mettere in crisi la sua rielezione? C’è poi da considerare un altro fattore oggi all’apparenza fuori controllo: chi finanzia e decide le azioni terroristiche? La verità è che oggi  la Siria è il ring di pugilato del mondo: Iran contro Turchia, Sunniti contro Sciiti, Nato contro Russia. E l’arbitro, l’Onu, che rimane impotente a causa del diritto di veto.

Come uscire dalla grave situazione attuale?
Io ho due proposte concrete per riappacificare la Siria dalle divisioni. Una: inviare nelle strade siriane almeno 50mila corpi civili e nonviolenti internazionali, che si interpongano tra le parti in conflitto, soprattutto ora che violenza e armi sembrano essere l’unica risposta. Queste figure ci sono, e vanno impiegate con un ruolo riconosciuto da tutti i belligeranti, per ridare ai siriani il loro diritto all’autodeterminazione. L’altra idea è quella, fin da subito, di creare laboratori, punti di incontro tra i milioni di siriani all’estero per convincerli a trovare una soluzione comune e smetterla di darsi addosso. Se loro recuperano il dialogo, poi anche in patria potranno farlo.

Non è tardi per il dialogo, viste anche le atrocità commesse dal regime?
Le torture sono abominevoli, ma ricordiamoci che non è niente di nuovo: fino a poco fa era la stessa Cia, l’intelligence statunitense, a sponsorizzare i paesi arabi che ne facevano uso contro l’integralismo islamico. Comunque, la possibilità di risolvere il conflitto con il dialogo c’è ancora: lo testimoniano le centinaia di giovani che mi fermano per strada dicendomi che loro rifiutano la logica della guerra civile. Nonostante le vessazioni, nel Paese sono a migliaia quelli che non vogliono imbracciare le armi. Il problema è che con il passare dei giorni sono sempre meno, soprattutto se nessuno dà loro segni di speranza.

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Il servizio è sul numero di Vita in edicola


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