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Giustizia rieducativa

Autori di reato consapevoli, vittime protette

Una persona detenuta all'interno dell'istituto penitenziario di Bollate ha realizzato un percorso di consapevolezza in un gruppo organizzato da Liberation prison project Italia, che l'ha portato a riflettere sulle proprie emozioni, sulla propria vita e sulle motivazioni che l'hanno portato alla pena

di Veronica Rossi

uomo che medita con un albero sullo sfondo

«La giustizia rieducativa, per quanto riguarda la mia esperienza, è stata rappresentata dal percorso di consapevolezza che ho seguito all’interno del penitenziario». A parlare è Mario Bellini (nome di fantasia), che ha scontato una pena di alcuni mesi presso il carcere di Bollate, nella città metropolitana di Milano. Ora è libero, ha terminato all’esterno una parte della sua condanna . Ad aiutarlo, anche le riflessioni maturate in un laboratorio sulla consapevolezza personale realizzato da Liberation prison project – Lpp Italia, che organizza da 14 anni percorsi di sviluppo personale e di conoscenza di sé rivolti a persone detenute, ma anche ai dipendenti delle strutture; le attività hanno visto un’accelerazione grazie ai fondi dell’Otto per mille dell’Unione buddhista italiana – alla cui filosofia l’associazione si ispira – e oggi sono realizzate in 15 istituti italiani da operatori selezionati e formati ad hoc.

«Ho sempre avuto una bellissima vita, sono stato molto fortunato», racconta Bellini. «Poi ho avuto un problema, un reato di minore entità, che mi ha portato a passare alcuni mesi nell’istituto penitenziario; però durante questa esperienza ho avuto la possibilità di conoscere un percorso di cui non sapevo nulla; l’ho intrapreso senza alcun tipo di aspettativa: non bisogna cominciare pensando di ottenere una riduzione della pena». Le attività vengono realizzate in maniera individuale o in piccolo gruppo; Bellini, per esempio, ha partecipato in un gruppo di cinque persone. «Nel 2022 abbiamo realizzato 924 ore di gruppo», racconta Maria Vaghi, mindfulness counselor e segretaria generale di Lpp Italia, «555 ore di colloqui individuali e 195 ore a persone che stanno terminando la loro pena fuori dall’istituto penitenziario. A Bollate, dove lavoriamo dal 2009, abbiamo coinvolto circa 85 partecipanti a settimana. I corsi sono aperti a tutti e a libera adesione: non avrebbe senso che fossero obbligatori, quando si tratta di consapevolezza».

Bellini era tra coloro che hanno voluto mettersi in gioco. «Fin da subito c’è stata sintonia con gli operatori, ma anche con la tematica stessa», ricorda. «Ho trovato alcuni dettagli che mi hanno aiutato a dare un senso a quello che era successo; ho cominciato un percorso esperienziale, su quello che stavo provando. Tutte cose che, fino a quel momento, non avevo neanche preso in considerazione».

Il percorso mi ha dato la possibilità di vedere l’altra faccia della medaglia: il periodo che stavo attraversando non era morto, anche quando ero all’interno del carcere.

— Mario Bellini

Durante gli incontri – due ore a settimana – vengono fatti esercizi per aiutare l’osservazione di sé, l’attenzione. Che può cominciare anche dalla consapevolezza di come si fa un gesto banale, come il riordino della stanza o il modo in cui si mangia, per arrivare a coinvolgere tutto il sentire della persona. «Facciamo un percorso», spiega Vaghi, «che riguardi il loro essere umani e il loro agire nella vita, che evidentemente comprende anche il fatto che che li ha portati in carcere». Non è obbligatorio parlare del proprio reato, ma alcuni lo fanno. E condividendo con gli altri il proprio vissuto interiore. «Durante la settimana parlavamo tra di noi», dice Bellini, «prendendo spunto da quello di cui si era discusso negli incontri, è stato un modo anche per confrontarsi su esperienze che pensavamo essere personali e di nessun altro e che invece abbiamo scoperto di condividere. Nella sfortuna, ho imparato di essere stato fortunato. Il percorso mi ha dato la possibilità di vedere l’altra faccia della medaglia: il periodo che stavo attraversando non era “morto”, anche quando ero all’interno del carcere. Non volevo farmi trascinare dagli eventi, ma dare un senso alle mie giornate, comprendere qualcosa di me». Quando ha avuto la possibilità di finire di scontare la sua pena fuori dall’istituto, ha continuato a seguire un percorso individuale. E oggi, che il cammino è concluso, continua la pratica nella sua vita quotidiana.

«Per quanto mi riguarda, il percorso di consapevolezza è stato la mia ancora di salvezza all’interno del carcere», commenta. «La pena dovrebbe avere sempre una funzione rieducativa, ma, per quanto riguarda la mia breve esperienza, spesso è difficile che sia così. Gli educatori che dovrebbero seguire le persone detenute sono pochi, ho sentito di casi in cui sono riusciti a vederli una volta all’anno soltanto». Eppure, un periodo di reclusione potrebbe essere un momento importante per riflettere sui propri errori e sulla propria vita e per imparare strategie per intraprendere un cammino diverso. «Lasciare che il corpo si esprima, imparare a riconoscere le proprie emozioni e rendersi conto di quando si è mossi da uno stato d’animo particolare aiuta a disinnescare alcune situazioni che potrebbero diventare di difficile gestione», conclude Vaghi. «Questo è il nostro contributo per proteggere le vittime».

Foto in apertura da Pixabay


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