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Bambini, le storie sono un’ancora

L'iniziativa sperimentale del Centro Come della cooperativa sociale Farsi Prossimo utilizza la narrazione come principale strumento d'integrazione dei bambini stranieri nelle scuole italiane. «Le storie sono una base sicura, il centro della nostra identità», dice a Vita.it Graziella Favaro, la direttrice scientifica del progetto che ha coinvolto 35 studentesse, 15 mamma straniere e quasi 400 bambini

di Anna Spena

«Le attenzioni precoci nei confronti dell’infanzia, gli investimenti educativi diffusi e inclusivi – che peraltro nel nostro Paese non sono mai stati del tutto compiuti in maniera diffusa e capillare – hanno subito negli ultimi anni arretramenti e arresti», non usa mezzi termini Graziella Favaro, fondatrice e direttore scientifico del Centro Come, servizio della cooperativa sociale Farsi Prossimo, che si occupa dal 1994, anno della nascita dell’integrazione dei bambini e ragazzi stranieri in Italia. Membro dell’osservatoria nazionale sull’integrazione degli alunni stranieri, la dottoressa Favaro denuncia: «Per ragioni economiche, una parte consistente e crescente di bambini – soprattutto stranieri – non frequenta la scuola dell’infanzia, oppure lo fa in maniera saltuaria e ridotta all’ultimo anno. E ancora, i costi della mensa costringono un numero sempre più consistente di bambini a rientrare a casa per il pranzo e molti di loro non tornano più a scuola nel pomeriggio. Meno tempo educativo, minori opportunità di cura e di socializzazione, più solitudine e maggiori distanze e separazione nel tempo extrascolastico: sono alcune delle conseguenze dell’impoverimento dei servizi per l’infanzia che colpisce maggiormente i bambini più vulnerabili». Per questo motivo, in collaborazione con l’associazione IBVA, l’associazione “Mamme a scuola” e l’università di Milano Bicocca, lo scorso settembre ha lanciato un progetto educativo – ed anche molto economico – a favore dei bambini: “Le storie sono un’ancora”.

Che cos’è il progetto “Le storie sono un’ancora”?
La risposta ad un bisogno che abbiamo intercettato: i bambini hanno bisogno di storie come il pane, ovviamente tutti i bambini, ovviamente ancora di più quelli figli di persone immigrate.

Perché?
Le storie sono una base sicura, il centro della nostra identità. Fiabe, racconti, libri illustrati. Ma anche storia di famiglia, quelle che raccontano i nonni. I racconti servono ai bambini per collocarsi nella geografia della famiglia. Quello della narrazione è un diritto ed un bisogno insieme. Ma ci sono bambini che hanno meno storie, come i bimbi stranieri perché a loro manca la generazione dei nonni; poi nelle famiglie immigrate ci sono meno libri; sia in italiano che in cinese, rumeno, albanese…

Quanti erano i bambini stranieri nelle scuole nel 1994 e quanti, invece, oggi?
A Milano c’era già una buona presenza, il primo arrivo di immigrati adulti è iniziato negli anni Ottanta. Allora i bimbi stranieri nelle classi erano il 5%. Oggi la media è del 20%. Ma ci sono quartieri, scuole e zone dove la presenza arriva fino al 70%.

Come si sviluppa il progetto?
È diviso 3 fasi. La prima è partita a settembre 2016 e si è conclusa a gennaio 2017. Abbiamo fatto dei corsi di formazione a 35 studentesse di scienze della formazione, future maestre, dell’Università Bicocca e a 15 mamme straniere di varie nazionalità. Le prime narratrici volontarie e le seconde narratrici interculturali.

Poi?
Durante la seconda fase, da febbraio a maggio/giugno, abbiamo proposto dei laboratori narrativi ad alcune scuole del territorio con bambini da zero a sei anni. Il progetto complessivamente ha lavorato con circa 400 bambini. In ogni scuola abbiamo fatto dai sette ai nove incontri. La terza fase e di diffusione del amteriale raccolto in questi mesi.

L’obiettivo?
Lavorare sulla lingua comune: l’italiano è il primo strumento d’integrazione. Negli ultimi tempi si registrano alcune criticità anche fra i più piccoli, fra i bambini stranieri nati in Italia: la cosiddetta seconda generazione. Un dato su tutti: al termine del primo anno della scuola primaria viene bocciato lo 0.4 % degli alunni italiani e il 2.4% dei piccoli stranieri. All’origine dell’esito negativo, così precoce e che può segnare in maniera profonda il cammino della scolarità successiva, vi sono quasi sempre le difficoltà di acquisizione dell’italiano che si riverberano in seguito sull’apprendimento della lingua scritta. I luoghi di cura e i servizi educativi per l’infanzia hanno dunque un’importanza cruciale, sia nello sviluppo linguistico orale, in italiano e nelle lingue materne, sia nello sviluppo dei “precursori” che facilitano l’ingresso nella lingua scritta. Alcune osservazioni condotte nella scuola dell’infanzia, fra i piccoli frequentanti stranieri di 5 anni, hanno messo in luce che una parte dei bambini non italiani manifesta una competenza in italiano ridotta, sia in termini lessicali e di fluenza, che grammaticali e di padronanza delle strutture di base. Presenta difficoltà a costruire frasi in maniera autonoma e, soprattutto, non riesce a narrare: a completare, ricordare o raccontare una semplice storia. E’ questa una competenza che si rivela cruciale ai fini dell’apprendimento della lingua scritta e dello sviluppo linguistico e cognitivo. Parallelamente, una prima indagine condotta fra le mamme migranti che frequentano i corsi di italiano L2 ha rilevato che le pratiche narrative che esse adottano nei confronti dei loro figli – sia in lingua d’origine che in italiano – sono spesso assenti o scarsamente praticate. Pochi genitori raccontano storie, guardano con i bambini e “leggono” libri illustrati, propongono giochi linguistici, cantano canzoni o insegnano filastrocche. La povertà narrativa sembra dunque una costante dell’infanzia migrante, qualunque sia l’origine nazionale dei piccoli.

Quanto è costato il progetto?
Complessivamente 5mila euro: pochissimo. Perciò speriamo che venga presto replicato magari aprendo collaborazioni con altri studenti universitari ed altre scuole del territorio.

Credit: unsplash


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