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Salute ambientale

Climate litigation, è boom di cause: anche l’Italia sul banco degli imputati

Le cause fondate su questioni climatiche, sono entrate stabilmente nella cassetta degli attrezzi di chi vuole denunciare l'inazione di Stati, corporation e attori finanziari di fronte all'emergenza climatica. Come dimostra il rapporto "Global trends in climate change litigation snapshot 2023"

di Andrea Di Turi

Che tu sia uno Stato, una corporation o un player finanziario (banca, assicurazione, fondo pensione, ecc.), fa poca differenza. Se stai continuando a sostenere o finanziare, se hai interessi o in qualche modo sei legato al business delle fossili, il cui utilizzo costituisce la prima causa della crisi climatica, prima o poi qualcuno ti farà causa.

Le climate litigation, le cause fondate su questioni climatiche, sono entrate stabilmente nella cassetta degli attrezzi di chi vuole denunciare l’inazione di Stati, corporation e attori finanziari di fronte all’emergenza climatica. Obiettivo: obbligarli a fare di più attraverso lo strumento più potente che ci sia a disposizione: le sentenze, la certezza del diritto, il principio di legalità, the rule of law.

A fotografare il fenomeno è il recente Global trends in climate change litigation snapshot 2023, quinta edizione dello studio realizzato annualmente dal Grantham Research Institute on Climate change and Environment della London School of Economics. Che dice – dati a maggio scorso – che solo negli ultimi dodici mesi sono state intentate nel mondo 190 delle oltre 2.300 cause climatiche (due terzi hanno preso il via dal 2015) complessivamente catalogate negli anni dal Climate Change Litigation database mantenuto dal Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University di New York.

Negli ultimi dodici mesi sono state intentate nel mondo 190 delle oltre 2.300 cause climatiche (due terzi hanno preso il via dal 2015) complessivamente catalogate

Sebbene nell’ultimo anno il ritmo di crescita sia leggermente rallentato, è aumentato il grado di diversità dei casi rappresentati nelle cause climatiche. Che hanno ad esempio debuttato in nuovi Paesi, fra cui Cina e Russia. E poi hanno preso sempre più di mira le grandi corporation, utilizzando una crescente varietà di argomenti legali: salgono ad esempio le cause contro il climate washing, il greenwashing legato alle affermazioni (i “green claims“, cui è rivolta anche la proposta di Direttiva presentata a marzo dalla Commissione Ue) e agli impegni dichiarati dalle società riguardo al clima. Aumentano anche le cause che riguardano gli investitori, dove si pone la lente sull’impatto che hanno già avuto o che potranno avere sul clima le scelte d’investimento, specie quelle relative ad attività ad alto tasso di emissioni climalteranti (come le fossili, ancora una volta). Pesa sempre di più (135 le cause in totale) anche il Sud del mondo, dove le climate litigation poggiano con crescente frequenza su argomenti legati alla tutela dei diritti umani e dei diritti costituzionalmente garantiti.

Pesa sempre di più (135 le cause in totale) anche il Sud del mondo, dove le climate litigation poggiano con crescente frequenza su argomenti legati alla tutela dei diritti umani e dei diritti costituzionalmente garantiti

Un punto è particolarmente esplicativo della capacità delle climate litigation di incidere sulla risposta alla crisi climatica in senso lato, che poi è il loro comune obiettivo di fondo. A oggi oltre la metà, fra quelle giunte a sentenza definitiva o provvisoria, hanno avuto un esito positivo per il clima. Ma soprattutto lo studio evidenzia come queste cause sappiano esercitare un impatto indiretto che va al di là dell’esito, qualunque sia, cui si giunge in tribunale: hanno influenza sulla governance climatica in generale e sugli attori che vi sono coinvolti, come legislatori e regolatori; sulla percezione dei rischi climatici da parte dei mercati finanziari, dell’opinione pubblica, degli stessi giuristi; sulla narrazione mainstream quanto alla necessità di agire per il clima. Anche di fronte a una sentenza negativa, insomma, l’impatto di un contenzioso climatico nel contesto della lotta globale alla crisi climatica può essere rilevante.

Anche se i numeri differiscono leggermente (per questioni metodologiche legate ad esempio all’intervallo di tempo considerato), che il fenomeno delle climate litigation stia crescendo rapidamente d’importanza è stato rilevato anche dal Global Climate Litigation Report 2023 (che segue quelli del 2017 e del 2020) pubblicato di recente da Unep, il Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite. Dove si delinea in ogni caso una tendenza inequivocabile: il numero cumulato delle climate litigation è passato da 884 nel 2017 a 1.550 nel 2020, a 2.180 oggi. Le giurisdizioni interessate da cause climatiche sono salite, negli stessi anni, da 24 a 39 a 65. E il numero di cause è cresciuto sia negli Stati Uniti, epicentro del fenomeno (da 654 a 1.200 a 1.522), sia al di fuori degli Usa (da 230 a 350 a 658), dove spiccano l’Australia (127 cause), il Regno Unito (79), l’Unione europea (62) e la Germania (38). Sei le cause censite in Italia, alla pari col Pakistan.

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Si tenga poi presente che per sua natura la giurisprudenza è in costante evoluzione. In questo senso è la semplice cronaca a legittimare l’ipotesi che le climate litigation siano un fenomeno destinato ad espandersi ulteriormente via via che si diffonde la consapevolezza, anche in ambiente giuridico, della gravità della crisi climatica e dell’urgenza di contrastarla. Poche settimane fa un giudice in Montana, sulla base della Costituzione dello Stato, ha dato ragione a un gruppo di giovani querelanti (anche se lo Stato del Montana ha annunciato ricorso) che chiedevano venisse dichiarata l’incostituzionalità di una legge che impediva che si tenesse conto dell’impatto ambientale nel processo di autorizzazione per l’estrazione di combustibili fossili: un caso che gli esperti giudicano di monumentale importanza per l’effetto che potrà avere su procedimenti simili in giro per il mondo. Sempre nelle scorse settimane gli esperti del Comitato Onu sui Diritti dell’Infanzia hanno espresso un parere secondo il quale gli Stati hanno il dovere di garantire ai bambini un ambiente sano in cui vivere e questi hanno facoltà di ricorrere alle vie legali se ritengono che tale diritto sia violato. Anche qui gli esperti si attendono che tale parere, sebbene non vincolante, possa avere un impatto molto ampio, anche perché fondato su una delle convenzioni più ampiamente accettate a livello internazionale, la Convenzione sui diritti dell’Infanzia.

Intanto in Italia è attesa per il 13 settembre presso il Tribunale civile di Roma la terza udienza de “Il giudizio universale”: è il nome dato alla causa, intentata da oltre 200 soggetti tra individui e associazioni, che accusa lo Stato italiano di inazione climatica.

In apertura: Maggio 2023, Ponte Nuovo di Cesena. LaPresse


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