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Solidarietà & Volontariato

Fratel Ettore gigante di carit

La lezione del camilliano dei poveri si è spento a Milano il religioso che si occupava degli emarginati della città (di Benedetta Verrini e Carmen Morrone).

di Benedetta Verrini

«Era impossibile fare il cronista a Milano e non conoscere fratel Ettore». A metà degli anni 80, Luciano Moia lavorava al Giornale di Montanelli. E il suo incontro con il ?gigante della carità?, come l?ha definito il cardinal Martini, non se lo dimenticherà mai. Lo ha conosciuto sul campo, mentre stringeva decine di mani alla Stazione Centrale di Milano, «e di ciascuna raccontava la storia», ricorda il giornalista. Il primo incontro, per la verità, era stato rocambolesco. «Mi aveva dato appuntamento al suo rifugio in stazione alle 5 e mezza del mattino», prosegue Moia, che in seguito ha raccolto tanto materiale da scrivere la prima biografia di fratel Ettore Boschini (Fratel Ettore e i suoi amici, ed. Camilliane). «Quando sono arrivato, però, lui era già partito per Seveso, alla volta dell?altra comunità che aveva appena creato. Allora mi sono messo al suo inseguimento. E quando sono arrivato a Casa Betania, fratel Ettore aveva già suonato la campanella mattutina e stava recitando le preghiere con i suoi ospiti. Ho avuto appena il tempo di presentarmi. Subito mi ha messo in mano un breviario e, fiducioso, è andato a occuparsi dei suoi amici lasciandomi nella parte del celebrante a guidare la preghiera?». Un rifugio alla Centrale Il segno distintivo del frate camilliano, che si è spento il 20 agosto a Milano, a 76 anni, dopo una lunga malattia, è stato senz?altro la radicalità. Declinata come una forza interiore inesauribile e gagliarda, che lo ha mosso fino all?ultimo e ha segnato la città più laboriosa e borghese d?Italia. Dove fratel Ettore lascia in eredità una rete fitta di accoglienza per i più poveri, i più diseredati, i più difficili. Il primo filo è partito proprio dalla Stazione Centrale di Milano, a fine anni 70. è stata un?impresa in salita. «Per quei due magazzini abbandonati che sarebbero diventati il primo rifugio, le Ferrovie chiedevano, nel 78, la bellezza di 6 milioni al mese», dice Moia. «Lui non si è arreso e ha scritto all?allora ministro dei Trasporti, Vittorino Colombo che è intervenuto per concedergli un affitto simbolico». Quante migliaia di disperati saranno passate da quel primo centro, in 26 anni? Tante. Il Rifugio Amici del Cuore Immacolato di Maria, incastonato nella grande e grigia stazione della città, dà accoglienza con vitto e alloggio a circa 130 persone ogni notte. «è sempre pieno, tutti sanno dov?è il rifugio di fratel Ettore», dice Mario Furlan, fondatore dei City Angels. Mario è stato uno dei volontari più tosti al fianco del camilliano, standogli accanto dal 1983 al 1994. «Avevo 18 anni e arrivavo dalla Liguria per fare l?università», racconta. «I poveri della stazione sono la prima cosa che ho visto scendendo dal treno, e così ho chiesto come potevo aiutare: mi hanno mandato da fratel Ettore e lui mi ha subito messo a servire in mensa». Un?esperienza che lo ha segnato per sempre. «è facile guardare al prossimo come a tuo fratello», prosegue Furlan, «quando ti segue docilmente e ti ringrazia per quello che fai. Noi avevamo a che fare con gente che ci mandava a quel paese, che ci sputava addosso. Fratel Ettore mi ha insegnato a capire che se si comportavano in questo modo, chissà quanti calci avevano preso dalla vita». Nel 1994 Furlan ha creato l?associazione di volontari City Angels e ha iniziato a collaborare con fratel Ettore per garantire un po? di servizio d?ordine nel rifugio della stazione. «C?erano grandi problemi di ordine pubblico», spiega. «Il panorama dei disperati della Stazione Centrale è cambiato più volte in questi anni. Dopo la prima emergenza di italiani, uomini di mezza età con problemi di droga e alcolismo, sono arrivati gli stranieri. Albanesi prima, poi magrebini e infine rumeni e gente dell?Est Europa. L?età media si è abbassata e ci sono anche più donne. Sono nettamente calati i tossicodipendenti e la vera emergenza oggi sono la clandestinità e lo sfruttamento». Furlan parla di fratel Ettore come se non se ne fosse andato. Il sindaco-volontario Anche Seveso è un pezzo di questa rete di carità. Fratel Ettore ha voluto essere seppellito proprio presso la comunità di Casa Betania, che ospita 50 persone tra cui ex alcolisti e malati psichiatrici. «L?avevo conosciuto molti anni prima che arrivasse qui», ricorda il sindaco della città, Clemente Galbiati. «Facevo il volontario al Centro volontari della sofferenza e accompagnavo i malati in ritiro spirituale. Un?estate, durante uno di questi viaggi ho incrociato fratel Ettore con i Giovani di azione mariana. Mi aveva subito colpito la sua grande devozione alla Madonna. Infatti, una delle prime cose che ha fatto sul terreno che aveva ottenuto dalla Curia qui a Seveso è stata erigere una copia esatta della cappella di Fatima». Una presenza, quella della comunità di Casa Betania, «che dopo qualche titubanza», prosegue il sindaco, «si è inserita completamente nel tessuto cittadino, attraverso il rispetto e la discrezione». Casa Betania è retta da suor Teresa Martino, la prima ad aderire all?associazione delle ?discepole? di San Camillo, un gruppo promosso e sostenuto da fratel Ettore per proseguire l?opera di «missionari in un Paese industrializzato, dove abbonda la tecnologia ma c?è un grande vuoto d?amore». E poi, la rete è stata gettata oltre Milano. Anche a Bucchianico, in provincia di Chieti; a Grottaferrata nel Lazio e persino a Bogotà, in Colombia. «In molti ci hanno detto: ma non vi bastavano i poveri italiani?», scrive suor Teresa nel sito. «Sì, certo e sono tanti, ma la Chiesa è missionaria e anche i cristiani lo sono». In una foto, suor Teresa si prende cura di un malato con un cancro al viso. «Girava per le strade di Bogotà con uno straccio sul volto», scrive. «Fratel Ettore lo ha incontrato e portato a casa». Come suona bene, qui, la parola ?casa?. L?addio dei suoi amici «è stato un esempio ineguagliabile, anche per la solidarietà che parte da una base laica», commenta Sergio Segio. «Per onorare la sua memoria, come ha detto anche il prefetto Ferrante al funerale, è necessario trasformare le parole in azioni concrete. E non stancarsi mai, come ha fatto lui, di essere una ?spina nel fianco? delle istituzioni, che devono assumersi le loro responsabilità e garantire i diritti ai più deboli». Al funerale celebrato in sant?Ambrogio, basilica simbolo di Milano, sono andati in tanti: persone comuni, autorità, curiosi. Ma soprattutto chi ha avuto la fortuna di ricevere il suo aiuto. La basilica era stracolma e molti hanno assistito alla celebrazione in piedi o seduti per terra nel cortile. Giovani, adulti, anziani e i poveri, gli ultimi, gli esclusi. Nel quarto banco hanno preso posto alcuni uomini con quell?età indefinita che ti dà la vita sulla strada. Non conoscevano le parole della messa, i loro sguardi smarriti sul presente seguivano pensieri, fissavano il feretro come se continuassero quel discorso lasciato a metà, notti prima, alla stazione di Milano. «è stato il mio salvatore?», ci dice tra le lacrime un omino tanto magro da far sembrare i suoi abiti appesi a una gruccia. Su due banchi erano sedute donne con la testa avvolta dal foulard. Ucraine, arrivate da poco per cercare lavoro, che hanno trovato rifugio al Cuore immacolato di Maria. Un semplice saluto, un gesto di riconoscenza: diversi i motivi per cui la gente si trovava là, stipata in un caldo opprimente. La commozione è sfociata in applausi quando il feretro, sollevato a spalla, ha attraversato la navata centrale. Ma i poveri hanno fatto di più. Fermi come sull?attenti, un silenzioso inchino accennato con il capo, a mani giunte. E poi il segno della croce.

Benedetta Verrini Carmen Morrone


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