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Cooperazione & Relazioni internazionali

L’umanità e quello sbarco vissuto in prima linea

Estate 2015, Catania: la nave della Marina norvegese Siem Pilot arriva in porto con 300 persone salvate dal mare. Da quel momento il tempo si ferma, per ore. L'identificazione, il ristoro, l'empatia di chi assiste, l'attesa di sapere che ne sarà del proprio futuro: ecco il racconto di ciò che ognuno dovrebbe vedere con i propri occhi

di Daniele Biella

Quando sei lì nel mezzo, il primo pensiero è quello che poi non ti abbandona per giorni e giorni: tutti dovrebbero assistere a uno sbarco di migranti. Proprio tutti. Operatori dell’informazione, politici, persone di ogni estrazione sociale, credenti o atei, sinistrorsi o destrorsi, leoni da tastiera o duri e puri avulsi da ogni social network.

Dovrebbero assistere tutti, perché basterebbe il tempo di uno sguardo per capire i primi due comandamenti delle migrazioni: silenzio, e rispetto. Quando è capitato a me, di arrivare quasi per caso nel pieno dei lavori di sbarco, in questa estate record di arrivi e disgrazie, in silenzio ci sono stato per la prima mezz’ora almeno. A pochi metri dalla scaletta di quella nave mastodontica, completamente arancione – un colore contundente ma nonostante tutto gradevole, quello della Siem Pilot, l’imbarcazione della marina norvegese, attraccata nel porto di Catania – mentre con estrema lentezza scendevano persone di ogni età provenienti da Paesi in guerra come la Siria, in fuga dal regime atroce dell’Eritrea, dagli attentati terroristici in Iraq, dalle violenze in Nigeria o dalle deprivazioni dell’Africa Subsahariana, e comunque tutti passati dalle atrocità dei mercanti di uomini della Libia, prima di provare la roulette russa del mar Mediterraneo.

Il rispetto? Arriva da sé: guardi negli occhi quelle madri con in braccio scriccioli a cui finora il mondo non ha riservato nulla di buono, quei padri giovanissimi che sperano, chissà dove, un futuro migliore nonostante la tristezza marchiata nel cuore per avere lasciato la madrepatria, così come buona parte degli affetti, degli amici, della vita che non hanno potuto continuare a fare. Guardi le rughe dei meno giovani, che sono le stesse sulla pelle nera, rosa o mulatta, e ti chiedi dove sono, ora, le loro menti, a chi rivolgono le loro preghiere, religiose o laiche che siano.

È vietato parlare con i migranti che sbarcano: o meglio, lo possono fare solo gli operatori autorizzati. A cominciare dagli operatori di Frontex, l’agenzia dell’Unione europea che controlla le frontiere, presente sia a bordo nave sia sulla banchina con sedie, tavolini e materiale per l’identificazione: fotosegnalazione, prima ancora delle discusse impronte digitali (che verranno prese in seguito e che al di là della propria volontà di raggiungere il Nord Europa, vincoleranno il richiedente asilo alla permanenza nel Paese di approdo, come da Regolamento di Dublino). Possono rivolgersi ai migranti anche la Polizia di Stato che, tramite la nomina di un responsabile dello sbarco nominato di volta in volta tra i propri dirigenti, gestisce le operazioni di terra, la Guardia di Finanza e i referenti del ministero della Salute, così come i delegati comunali. Croce rossa, Protezione civile, le ong Save the children e Cisom, presenti in loco, possono certamente dialogare, limitandosi però a raccogliere le informazioni che competono loro.

Tutti, ma proprio tutti (lo ammetto: con mia gran sorpresa, soprattutto fra le forze dell’ordine, chiamate per ore a un lavoro che va al di là del loro ruolo canonico, dove inflessibilità deve avvicinarsi come non mai a umanità) fanno valere il comandamento del rispetto. E' metà pomeriggio, la temperatura sfiora i 40 gradi: "fateli scendere uno alla volta dalla nave, così non devono passare decine di minuti sotto il sole in attesa di essere identificati", sento dire alle mie spalle. Nessuno urla, raramente un funzionario perde la pazienza – a un certo punto è successo, inaspettatamente, ma verso i pochi fotografi e giornalisti presenti dietro le transenne a cui è stato bruscamente intimato l’allontanamento dalla zona di sbarco, gli stessi che qualche decina di minuti prima avevano avuto il permesso di salire addirittura a bordo della nave per scattare fotografie – e con assoluta evidenza prevale l’empatia verso uomini, donne e bambini che qualcuno lontano da lì chiama “clandestini” ma che su quel molo sono uomini, donne e bambini. Bisognosi di aiuto.

“Hai una sigaretta?”, mi chiede un ragazzo più alto e giovane di me. È lì, seduto per terra, in dignitosa attesa di sapere dove verrà trasferito. Le scarpe rimaste in mare, probabilmente, e la consapevolezza di avercela fatta, ma anche di avere davanti a sé un periodo non facile. Poco più in là, lo Spazio a misura di bambino di Save the children prende forma, ci sono educatori pronti a far passare il più serenamente possibile l’attesa ai più piccoli e ai loro genitori. Intanto il passaparola tra operatori sanitari parla, su 300 sbarcati circa, di una persona con sospetta tubercolosi, già isolata dagli altri, e di un corpo senza vita: proprio in quel momento, scende dalla nave un ragazzo siriano, il probabile fratello della vittima. Anche lui scalzo, gli occhi nel vuoto, alla ricerca di una consolazione che, soprattutto in quel momento più burocratico che umano, non può trovare. Fosse stato a Reggio Calabria o a Palermo, avrebbe potuto trovare il calore e una carezza dei volontari che le rispettive Prefetture ammettono al momento dell’arrivo di una nave con migranti. Ma qui a Catania, come negli altri luoghi di sbarco, no. Peccato.

Il tempo passa: le parole scambiate con gli operatori, l’aiuto logistico che riesco a dare in un paio di occasioni, la visione di un’umanità che trasuda fratellanza – in fuga dall'orrore, in un malaugurato futuro, potrei esserci io, italiano, europeo – mi fanno capire che è ora di salutare quel posto, lasciare che ogni storia di vita presente prenda la sua strada, augurando una fortuna che molti non troveranno, altri invece sì. All’uscita trovo e supero i controlli che non avevo incontrato dall’altra parte dell’area portuaria. L’ha voluto il destino, forse, che avessi l’opportunità di toccare con mano uno sbarco. Posso continuare a fare il mio lavoro di giornalista, ora. Ma come vorrei che parenti, amici, conoscenti e non, potessero mettere piede su uno di quei moli, un giorno o l’altro.

Credits per le foto: Salvatore Cavalli, fotografo professionista


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