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Piazza Duomo e fase 2, le parole per raccontarla

Viaggio mattutino in una città lenta, a prima vista irriconoscibile ma in lotta per uscire ancora più autentica dalla pandemia. Ecco i sentimenti della Milano “un passo alla volta”

di Daniele Biella

“Papà, stai fissando il vuoto, te ne sei accorto?”. Sì, se n’è accorto. Ma l’uomo, sceso dalla sua bicicletta, non riesce a distogliere lo sguardo da quello che ha davanti: piazza Duomo, Milano, mattina di sabato 9 maggio 2020. Sotto un gran bel sole non è l’unico, quel padre poco più che quarantenne, a rivolgere lo sguardo verso un vero e proprio vuoto: quello della piazza, di una delle piazze più celebri d’Italia. Che il coronavirus ha depredato di turisti e di passanti. Non siamo più nel lockdown, con tutte le cautele legate al distanziamento fisico si può stare anche qui. I presidi delle forze dell’ordine sono immediatamente visibili, ma ti accorgi subito che è una presenza rassicurante, non oppressiva. Del resto la preoccupazione – paura, angoscia, sgomento, incertezza – riguarda tutti, senza distinzione di uniforme. Così come ci riguarda la speranza – solidarietà, pazienza, rispetto – che l’incubo sia alle spalle e ci rimanga.

Prima di stamattina, io stesso non venivo "in Duomo" da più di due mesi. Era ed è uno dei miei luoghi preferiti: il sagrato rialzato che domina la piazza, la fastosità della Galleria Vittorio Emanuele II che spesso contrasta con la veracità di chi vi passa attraverso, gli angoli sperduti nei tempi andati di quando ti immergi nelle viuzze laterali di via Torino, la superba camminata open air per arrivare al Castello Sforzesco e quella con sottofondo di musica e arte dal vivo che porta a piazza San Babila. E tanto altro. Stamattina mi sono reimmerso in tutto questo prefigurandomelo stravolto. E stravolto lo è veramente, così come lo sono i sentimenti, condivisi e indimenticabili, di questa mattina che era iniziata come spunto giornalistico per capire dove stesse andando Milano tra aperitivi sconsiderati e fuorvianti slogan di ripartenza economica, ma si è rivelata un miniviaggio – merce rara di questi tempi, i viaggi – pieno di empatia, correttezza e desiderio di serenità. Eccolo, il miniviaggio. Deframmentato.


Sguardi
Prima di tutto loro, gli sguardi. Quello del papà verso il vuoto della piazza, disertata anche dai pochi piccioni presenti, rimasti vicino al monumento del re a cavallo. Quello di chiunque altro, me compreso, che arriva nel maestoso piazzale e rimane fermo – chi per qualche secondo, chi per minuti – a osservare. Sguardi stupiti ma anche curiosi, di quella curiosità che vuole incrociare l’altro che passa accanto, perché “chissà cosa pensa, come vive questa pandemia”. Non glielo chiedi, ma lo pensi. E sono sguardi per una volta senza giudizi: ci si guarda nella nuova versione del “noi”, quello con le mascherine che nascondono la mimica facciale ma risaltano il valore degli occhi, quelli dell’ #andràtuttobene ma anche no. È una sensazione a pelle mai provata prima.

Qui e ora
Sembra che chiunque si affacci alla piazza e la attraversi abbia interiorizzato il concetto base della mindfulness, quel “qui e ora” che ti fa cogliere appieno il momento. Facendoti fare un passo alla volta. Passo lento, anche se vai di fretta: perché la fretta, in epoca Covid-19, è relativa, se non riguarda la tua condizione di salute. E passo faticoso: non è facile relazionarsi con questo nuovo modo di vivere, distanziamento e mascherine, ma è necessario. Tutti o quasi portano la protezione sul volto, homeless compresi. Qualche ciclista la tiene pronta all’uso sul collo, qualche anziano proprio non la porta: forse è troppo impegnativa da portare, fa venire il fiatone come se si stesse andando in bicicletta. Si guarda la situazione, si cerca di non giudicare, insomma. E funziona. Intervenendo, se c’è qualche situazione fuori luogo: un vigile richiama un giovane che andava evidentemente troppo veloce in galleria, e la cosa finisce lì. Garbatamente.


Silenzio
È clamoroso, il silenzio. In assenza di musicisti di strada, di altoparlanti dei negozi (la maggior parte chiusi, ovviamente) e di turisti festanti, sotto lo sguardo accogliente della Madunina i suoni più diffusi sono i giri delle ruote delle biciclette dei rider che lavorano e quelle di genitori e figli in escursione. Spesso un solo genitore, così l’altro può prendersi una pausa in questa nuova vita domestica dove padri e madri sono diventati anche degli insegnanti di sostegno. L’unico altro suono che spezza il ritmo silenzioso tutt’attorno è la voce della persone che incroci e che sta videochiamando qualche caro o amico, raccontandogli cosa vede, cose vive in quel momento. La voglia di condivisione è ai massimi livelli, il raccontare è un bisogno.


Magone
Bisogna raccontare il momento. Anche perché il magone è dietro l’angolo e rischia di assalirti in più occasioni. Quando vedi la poca gente in giro e ti chiedi se, assieme a tutte le altre attività, anche il turismo ripartirà o starà mesi se non anni al palo. Quando sfiori una libreria e ti colpiscono i titoli in vetrina prepotentemente colonizzati dalla tematica del virus oppure il reparto degli smartbox che è in primo piano ma sbarrato, inaccessibile. Quando scorgi i musei di Palazzo Reale e del ‘900 chiusi (sapendo però che il 18 maggio potrebbe essere la data del loro nuovo inizio). Quando entri nella metropolitana e trovi la galleria Santa Radegonda deserta e, tra i negozi chiusi, anche lo storico Mariposa Dischi che probabilmente non riaprirà più. Il magone arriva, ma poi passa se all’entrata degli esercizi commerciali aperti l’impiegato che ti indica disinfettante e guanti ti fa un largo sorriso, se parte la gara a chi è più gentile nel farsi da parte quando il distanziamento è in pericolo. E passa anche se sei credente e vedi luoghi di culto aperti (Duomo a parte), in particolare le piccole chiese come San Giorgio e San Satiro, con all’interno, in raccoglimento, poche persone ma di ogni età che cercano di trascendere anche questo momento storico personale e collettivo. Aiutati, in questo sabato mariano, da una lettura apostolica che sembra quasi scritta per i i tempi nostri.


Attesa
Attendere, ma anche fare attenzione. La Milano della fase 2 si ritrova guardinga – con il passo falso dei Navigli di 36 ore prima che pare già metabolizzato e archiviato – e pronta a portare pazienza. Nonostante la paura per un lavoro che non c’è o è in bilico, per il futuro dei propri figli e il presente dei propri anziani. L’attesa è il sopportare le code negli unici luoghi in cui si ritrova un numero minimo di persone: tra piazza Duomo e vie limitrofe succede fuori dalle farmacie, dai take away che offrono caffè più brioches d’asporto, nei market e nei negozi di telefonia. Attendere significa anche muoversi con mezzi propri fino a nuovo avviso, evitando se possibile i mezzi pubblici: semivuoti tram e linee della metro, queste ultime frequentate prevalentemente da addetti ai lavori che preparano la nuova segnaletica per quando si tornerà a un minimo di regime lavorativo. L’attesa è palpabile anche quando lo sguardo si ferma sulla Scala, la sala teatrale per antonomasia: chiusa ma in qualche modo pronta a ripartire, perché l’arte non aspetta altro che tornare a germogliare. DI fronte alla Scala, la sede centrale del Comune, Palazzo Marino, e il cartellone che da più di un anno chiede di riportare a casa Silvia Romano: che impressione e sollievo pensare che poche ore dopo sarebbe stata finalmente libera di tornare fra le braccia della famiglia.


“Un passo alla volta”, recita la campagna del Comune di Milano (a cui ha collaborato anche Ghali, per intercettare l’attenzione dei giovanissimi): esorta la milano veloce della moda e degli affari a camminare invece lenta, giudiziosa. Ce la farà? Tornerà a splendere, la grande Milano? “La conosco questa città. Ne uscirà trasformata, certo, ma anche più forte”, ragiona ad alta volte la titolare di una storica edicola. “Sarà un esempio per l’Italia, vedrai”. Non vedo l’ora. Dando tempo al tempo.


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