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Anziani e disabili: sul Covid nelle residenze è tempo di un’altra narrazione

Nella prima fase dell'emergenza la narrazione fu che negli ospedali c’erano gli eroi e nelle RSA gli assassini. La CEI Lombardia promuove un convegno per ripercorrere l'azione delle realtà cattoliche nella pandemia: «È tempo di un’altra narrazione», dice don Marco Bove, «di affermare che da una parte e dall'altra ci sono state persone e professionisti - dal medico all’Asa - che hanno dato tutto quello che potevano»

di Sara De Carli

Una chiesa creativa, che vuole essere prossima alle fragilità. È questa la riflessione che guiderà il convegno della Pastorale per la salute della CEI Lombardia che si svolgerà a Milano il 28 ottobre (ore 10-13 presso il Teatro del Centro Culturale Angelicum). Don Marco Bove, presidente di Fondazione Sacra Famiglia, interverrà nella sessione che vuole rileggere l’emergenza da Covid-19 nell’ottica di quell’invito a non sprecare la crisi a cui più volte Papa Francesco ci ha richiamati.

Nella Chiesa in passato c’è stata una forte attenzione alla cura della persona malata o fragile: è anche il presente della Chiesa, anche nell’emergenza Covid?
La Chiesa in questo tempo ha svolto sia un ruolo di ordine spirituale e pastorale, sia un ruolo attivo, più strettamente gestionale. Le diocesi lombarde al loro interno o comunque legate alla dimensione ecclesiale hanno molte realtà che hanno una dimensione cristiana, che nascono come espressione della carità della chiesa ambrosiana. Sacra Famiglia ne è un esempio, essendo stata fondata 125 anni fa da un sacerdote diocesano; ma non siamo gli unici. Nell’era Covid queste realtà hanno dimostrato non solo vicinanza pastorale ma si sono prese cura delle persone. In questo senso il tema di essere prossimi alle fragilità mi sembra azzeccato, soprattutto con quell’uso di fragilità al plurale: ci siamo presi cura di diverse fragilità, dagli anziani ai disabili ai loro familiari, perché non possiamo dimenticare che anche le famiglie hanno sofferto per un anno e mezzo, senza poter incontrare i propri cari.

Papa Francesco tante volte ha ripetuto che peggio della crisi c’è solo sprecare la crisi. Che cosa significa non sprecare la crisi?
È un titolo molto evocativo ed è stato usato già anche dall’Ufficio per la disabilità della CEI. Cosa non va sprecato? Credo sia il fatto che una crisi può aiutarci a scoprire e capire meglio noi stessi, come realtà di chiesa e come enti che da decenni portano avanti non solo un messaggio di prossimità ma anche una prassi e una attenzione alle fragilità. Innanzitutto è non perdere la memoria di quello che è successo, cercare – non dico a bocce ferme ma con un po’ di distanza – di fare una narrazione diversa da quella che è stata fatta in maniera pressoché univoca all’epoca dei fatti. Mentre noi continuavamo a prenderci cura delle persone fragili, il resto del mondo si concentrava su altro: il nostro mondo, fatto di anziani e disabili, è sempre rimasto fuori dal focus dell'attenzione, abbiamo cercato di dire “ci siamo anche noi”, di fare capire che senza gli strumenti per poter prenderci cura delle nostre persone nelle RSA e nelle RSD ci sarebbe stata una caporetto… ma all’epoca la narrazione fu che negli ospedali c’erano gli eroi e nelle RSA gli assassini. In un momento in cui i DPI scarseggiavano, l’approccio scelto dalla sanità pubblica è stato quello di fornire i presidi agli ospedali, sottraendoli al nostro mondo, bloccando in dogana gli acquisti che avevamo fatto: ce lo ricordiamo questo? È tempo di un’altra narrazione, di dire che da una parte e dall'altra ci sono state persone e professionisti – dal medico all’Asa – che hanno dato tutto quello che potevano. La prima cosa quindi direi che è fare memoria di quel che è successo e fare una narrazione più vicina alla realtà, capace di restituire a chi le ha fatte le fatiche di un prendersi cura che in quel tempo difficile è stata testimonianza.

C’è un episodio che ricorda in particolare?
Contrariamente alle indicazioni che chiedevano di fare il tampone solo ai sintomatici, noi avendo le persone che nelle residenze vivono gomito a gomito quando c’era un sintomatico nel nucleo abbiamo sempre fatto il tampone a tutti: questo ci ha permesso di intervenire in modo tempestivo e adeguato. È stata una fortuna avere un direttore sanitario che ci ha accompagnato e fin dall’inizio e che ci ha guidato. Nella prima ondata, con quasi 700 persone, il virus è entrato solo in 2 residenze, con 3 decessi.

Cos’altro non va sprecato?
Quel “siamo tutti nella stessa barca” che il Papa ha fatto risuonare in quella meditazione potente in una piazza san Pietro vuota. Abbiamo scoperto che c’è un legame profondo che ci unisce tutti, nella difficoltà abbiamo dovuto scoprici molto più fratelli e sorelle. Un terzo elemento, pensando all’approccio medico, sanitario e sociosanitario, è che non siamo onnipotenti: né dal punto di vista medico né sociale. Pensavamo che la medicina potesse risolvere tutto, che la nostra società fosse solida: abbiamo visto che non è così. La pandemia ci ha insegnato cosa vuol dire fare i conti con la fragilità di una società, ci ha mostrato il limite della medicina che non è la salvezza perché c'è una bella differenza tra salute e salvezza. Sul fronte ecclesiale, le parrocchie hanno riscoperto una dimensione importante come la comunità: le messe sul computer le abbiamo fatte tutti, ma evidentemente una comunità è un’altra cosa. Sul piano personale poi questo tempo è diventato anche un tempo di notte oscura, di prova spirituale. il fatto che la chiesa abbia dovuto interrogarsi su cosa la rende tale, sul fatto che il cuore della Chiesa è l'annuncio e non l’erogazione di servizi liturgici… tutti questi sono gli aspetti di una crisi da non sprecare. Però abbiamo bisogno di tempo per elaborare tutto questo.


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