Sustainability Portraits
Sarà la sostenibilità o la barbarie
Il mondo delle imprese è a un bivio. Ce lo descrive, con l'apprezzabile aggiunta di un'eco sartriana e qualche nota dei Led Zeppelin, Marco Stampa di Saipem, uomo d'azienda e grande divulgatore sul tema. Nuova puntata della rubrica dedicata ai manager con competenze Esg
Chissà se Robert Plant e Jimmy Page hanno mai pensato che Stairway to heaven è (anche) una metafora della sostenibilità. Oltre che forse il brano numero uno nella storia del rock, s’intende. Se lo è chiesto, riflettendo sul fatto che il mestiere della sostenibilità deve essere anche un po’ visionario, Marco Stampa, head of sustainability governance di Saipem, dialogando sugli argomenti che hanno trasformato questa nuova puntata della rubrica di VITA in un’interessante panoramica sullo stato dell’arte della sostenibilità oggi. Se sui Led Zeppelin il dibattito non può che dividersi tra differenti scuole di pensiero, si può provare a riunire i puntini sul resto.
Lei è considerato uno dei pionieri della sostenibilità in Italia.
Tralascio volentieri questa definizione, che fa pensare alla mia età anagrafica! Ricordo comunque con piacere l’incrocio con i temi della sostenibilità durante il mio primo lavoro all’Eni, preparato da una borsa di studio presso il Cnr dopo la laurea in scienze politiche alla Sapienza, a inizio anni Novanta.
Di cosa si occupava?
Di ricerca, sviluppo e gestione di progetti in campo energetico e ambientale. Un campo allargatosi poi in azienda ai temi sociali, dando vita alla redazione di uno dei primi bilanci ambientali in Italia, che ha posto le basi degli odierni report di sostenibilità e dell’idea della sostenibilità come tema trasversale in azienda.
Quando il passaggio in Saipem?
Nel 2008, quando sono stato chiamato, dopo un’istruttiva esperienza all’estero, a ricoprire il ruolo di corporate sustainability manager per sviluppare il lavoro sulla reportistica già in atto in azienda. Dal reporting è stato poi un percorso con molte sfaccettature e processi utili per strutturare la sostenibilità nel business: dalla pianificazione strategica all’individuazione e monitoraggio degli obiettivi, dall’introduzione dei temi di finanza sostenibile allo stakeholder engagement, partendo dalla basilare analisi di materialità.
Che fase è quella odierna per i temi della sostenibilità delle imprese?
È un momento di maturità, anche grazie all’evoluzione del quadro regolamentativo europeo e internazionale. Ma, proprio per questo, il mondo delle imprese è un bivio: deve scegliere se adottare o meno una politica in cui cercare di rendere il proprio business più sostenibile fino al punto da mettere in discussione i paradigmi del suo stesso modello di sviluppo.
Che cosa significa questo per Saipem?
Per un’azienda così complessa, essere riconosciuta come un player vincente della transizione energetica è una questione cruciale: senza energia e senza un modo più sostenibile per produrla, il concetto stesso di sviluppo sostenibile non è perseguibile.
Questo passaggio non riguarda solo il vostro settore.
Siamo su un crinale nel quale la sostenibilità deve uscire definitivamente dalla sua nicchia di comfort, per diventare il fattore fondante nella gestione dell’azienda e puntare alla creazione di valore per tutti gli stakeholder: clienti, fornitori, dipendenti, comunità finanziaria, comunità locali, territorio.
In un mondo così instabile, non si sta finendo per sovraccaricare di troppe responsabilità l’entità-impresa?
È un rischio che vedo, ed è del tutto evidente che l’azienda non possa essere indicata come il problem solver unico delle crisi che colpiscono il mondo. Tuttavia, da un certo punto di vista, queste stesse crisi – Covid, guerre, carestie, grandi migrazioni – nascono da temi di sostenibilità, ossia da una mancanza di chiare azioni verso uno sviluppo sostenibile e dai drammatici problemi che conseguono a un uso sconsiderato delle risorse del Pianeta. Il mondo produttivo è pienamente integrato in questi problemi globali e perciò le imprese devono svolgere il proprio ruolo modificando, anche in nome di questo presente drammatico, i propri processi decisionali.
Quali altri attori coinvolgere oltre la catena del valore?
Restando in Italia, sebbene nella società si osservi con il giusto allarme lo sfilacciamento di alcune categorie di corpi intermedi, il mondo dell’associazionismo è ancora molto forte. Con questo mondo l’impresa può e deve relazionarsi riscoprendo interessi convergenti, competenze da condividere e partnership da avviare.
Qual è la sua esperienza rispetto al ruolo sociale delle imprese?
Uno degli aspetti più belli del mio mestiere è stata la possibilità di poter viaggiare in quasi tutti i continenti. Anche in situazioni abbastanza critiche, ho visto quanto un’impresa possa incidere positivamente sulle variabili dello sviluppo locale, sia economico che sociale, soprattutto in certe aree del mondo. Però, come abbiamo appena osservato, deve farlo con i mezzi tipici dell’impresa, con un contributo legato al business che svolge in un certo territorio, senza disperdere le energie.
Ci può fare qualche esempio?
Ogni nostro progetto è descritto e rendicontato, perciò, più che il singolo caso, ritengo importante segnalare il metodo che abbiamo seguito in tutti i Paesi in cui lavoriamo nella costruzione di impianti e infrastrutture. Si tratta di un modello di quantificazione delle esternalità positive del local content costruito ad hoc per misurare l’impatto dell’impresa nei territori rispetto a tre fattori di sviluppo: occupazione, crescita dell’economia locale, e sviluppo professionale delle persone, il tutto anche in termini di indotto.
Come funziona questo modello?
Anzitutto disegnando in maniera accurata i confini di questo impatto e di questa responsabilità. Tecnicamente, il modello, chiamato Selce (Saipem externalities local content evaluation, ndr), misura in termini monetari il valore dei tre aspetti citati in un certo arco temporale, restituendo così la misura del contributo dell’impresa alla creazione di sviluppo locale.
Tornando all’evoluzione normativa a livello europeo, qual è il nuovo approccio su cui si basa?
Nell’analisi di materialità tradizionale, le aziende che la mettevano realmente in pratica, chiedevano agli stakeholder di pronunciarsi sui temi per loro prioritari, in modo da creare una mappa degli impatti, degli interessi e in definitiva delle aspettative. Il principio della doppia materialità su cui è imperniata la nuova direttiva europea richiede di evidenziare anche gli impatti che quelle stesse tematiche ritenute prioritarie, ad esempio l’evoluzione del cambiamento climatico, possono avere sulla capacità dell’azienda di continuare ad essere profittevole in futuro.
Questa “doppia vista” non può essere intesa come un cappio per la competitività delle imprese, visto che in buona parte del mondo tali principi sono disattesi, se non apertamente rifiutati?
Il tema è complesso e posso contribuire solo con alcuni spunti di riflessione. Anzitutto, occorre intendersi su che cosa si intende che un’azienda debba creare valore. Dal punto di vista della sostenibilità, significa che non mira esclusivamente a distribuire profitti agli azionisti, ma estende il concetto a tutti gli altri stakeholder, ad esempio i dipendenti, le comunità e il territorio. Non perché sia più buona delle altre, ma perché quegli stessi interessi servono all’azienda per avere un futuro. Chiaramente, non sempre la creazione di valore di breve termine coincide con quella di lungo termine. Ma poi c’è il tema politico.
In che senso?
Ogni comunità reagisce in modo diverso a scelte politiche generali che intraprendono una direzione di sostenibilità e che, al tempo stesso, comportano dei costi sociali. Se l’Unione Europea, ad esempio, non riesce a riequilibrare le proprie strategie green con adeguate modalità di valutazione e mitigazione di tali costi sociali, si rischia un effetto boomerang. Senza considerare l’effetto burocrazia che nasce quando le normative sono troppo ridondanti da rischiare di generare un rigetto.
Qual è però il punto decisivo?
Al di là di questi pur importanti aspetti, parafrasando Jean Paul Sartre, autore a cui in gioventù ero molto affezionato, dico che “sarà la sostenibilità o la barbarie”. Pandemia, guerre, migrazioni, disuguaglianze sociali, distruzione dei legami nelle comunità, vivibilità degli spazi urbani: questi aspetti rischiano di imbarbarire il mondo e la nostra vita. Penso che l’unica strada sia quella di procedere verso uno sviluppo sostenibile, ponderando senza ingenuità i fattori in gioco, dal ruolo del consenso, all’uso che facciamo della tecnologia.
La sostenibilità è un tema anche di condivisione di competenze, giusto?
Si narra che i matematici, per secoli, fossero piuttosto gelosi delle proprie conquiste e che la soluzione di famosi problemi restasse confinata all’interno di caste molto ristrette. Credo che la sostenibilità funzioni un po’ al contrario. È un mestiere che non si può svolgere senza lo scambio di conoscenze e di confronto tra esperienze e approcci diversi. È anche per questo che, fuor di metafora, partecipo da anni all’associazione dei Sustainability Makers.
Il tema di un luogo di confronto e formazione emerge sempre più spesso in questa rubrica.
È importante rafforzare ambiti autorevoli in cui promuovere il confronto tra le generazioni di professionisti della sostenibilità e tra settori diversi. Anche nell’ottica di difendere e valorizzare questa nostra professione, in modo che diventi una voce sempre più efficace ed ascoltata dagli altri stakeholder.
Come dice il titolo del libro, edito da Hoepli, che ha scritto assieme a Donato Calace e Nicoletta Ferro e i cui diritti avete devoluto a Medici Senza Frontiere: La sostenibilità è un’impresa.
Partendo da punti di vista diversi, durante la pandemia volevamo lasciare accesa la fiammella della speranza del futuro, non solo dal punto di vista fideistico o etico, ma anche dal punto di vista concreto, siamo poi arrivati a unire i puntini di tanti processi ed esperienze diverse, il libro ospita alcuni contributi qualificanti di amici e colleghi e guardando la sostenibilità per ciò che è: un fenomeno che riguarda le imprese, che è anche un po’ un business e che è un’impresa, nel senso di sfida e di fatica, in sé. Ma, soprattutto, un mestiere difficile e fantastico per “portare a casa” dei risultati utili per tutti.
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