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Paolo Milone: «La psichiatria serve ad aumentare la libertà»

Genovese, psichiatra in pensione da tre anni, Milone esordisce come autore con “L’arte di legare le persone” raccontando in modo originale il suo lavoro in un reparto d’urgenza e il rapporto tra medico e paziente. L'intervista

di Asmae Dachan

«Quando ho iniziato la mia carriera, mi sono avvicinato alla psichiatria con una mentalità molto scientifica, ma dopo una ventina di anni di lavoro mi sono trovato con poco in mano e sono andato in crisi». Così Paolo Milone psichiatra genovese in pensione da tre anni, racconta come è arrivato alla sua prima fatica letteraria, “L’arte di legare le persone” (Giulio Einaudi Editore). «Ho deciso per un approccio alla psichiatria un po’ più libero dalle teorie. Mi sono riempito di storie umane, cose che avevo visto e fatto, relazioni, situazioni confuse e ambivalenti. In psichiatria ai pazienti si vuole bene, ma ci si litiga anche, un po’ come con i figli, ma con loro è ancora peggio. Anche con i colleghi i rapporti non sono mai facili. Sentivo il bisogno di raccontare queste situazioni liberarmene, per mettere un po’ di ordine. E ne è nato il libro».


Si è ispirato a qualche opera in particolare per la stesura dell’opera?
Non riuscivo a capire come procedere per la scrittura. Poi un giorno ho preso un libro di Marziale, “Gli epigrammi” e sono stato letteralmente fulminato dalla sua forza e dal suo stile comunicativo. Negli epigrammi Marziale si rivolge a una persona, le dice di tutto, poi però fa una chiusa umoristica, con una specie di messaggio di rappacificazione. Mi sono ispirato a questo straordinario stile comunicativo, e sono così riuscito ad esprimere questa ambivalenza. Non ho scritto un romanzo. C’è stata una saggezza inconsapevole in questa scelta. Considerata la complessità della psichiatria, è estremamente difficile scrivere un romanzo in maniera lineare, non ce l’avrei fatta. Ho scritto a schegge, tanti singoli pezzi, magari contraddittori tra loro, perché questo è quello che succede nella vita, specialmente in psichiatria. Non faccio lunghe descrizioni, parlo immediatamente della persona e dell’ambiente, do tocchi leggerissimi e la mente del lettore costruisce così la scena. Il risultato finale, come in un caleidoscopio, è il rapporto tra tutte le schegge.

Il titolo dell’opera è molto potente. Perché questa scelta?
La maggior parte dei libri di ambientazione psichiatrica raccontano il punto di vista del paziente, o parlano della psichiatria vista dal buco della serratura, un po’ dal di fuori. Questo è uno dei pochi libri dove si entra nel mondo della psichiatra aprendo la porta, e segue i ragionamenti che fa uno psichiatra, come vede le cose, come decide, come ragiona. Spero che si capisca che la contenzione è un discorso del tutto eccezionale, ma se uno di lavoro fa lo psichiatra, in un reparto di urgenza, in un pronto soccorso che accoglie 150mila persone l’anno, queste situazioni sono frequenti.

Giulia, l’incontro con il paziente non è l’imposizione della ragione sulla follia: è l’incontro tra due follie. Spera che la tua sia più umana e saggia dell’altra

“L’arte di legare le persone”

Quali sono state le prime reazioni al libro?
Le persone sono molto emozionate, mi dicono che hanno pianto, che restano colpite. È un libro che in alcune persone ha avuto una risonanza interna molto forte. Non avevo previsto questo aspetto. Sapevo che in qualche modo avrebbe toccato diverse corde. C’è uno stereotipo culturale per cui lo psichiatra deve dire che la malattia non esiste, che non bisogna preoccuparsi, che l’unica cosa che deve fare paura sono i manicomi, che tra l’altro non esistono più da quarant’anni. Ci sono molte opere che descrivono lo psichiatra come una persona di cui non ti puoi fidare, che è cattiva, che ti toglie la libertà, mentre nel libro appare chiaro che chi toglie la libertà non è lo psichiatra o la psichiatria, ma la malattia. La psichiatria serve ad aumentare la libertà, libera dalla malattia che è la prigione interna. Nel libro si capisce chiaramente che lo psichiatra è convinto che la malattia mentale possa far soffrire molto. Leggendo le persone sentono che non sono più sole, che c’è qualcuno che le può capire, che non devono avere più paura.

Qual è stata l’evoluzione della psichiatria?
Sono stati fatti importanti passi avanti, oggi ci sono ottimi servizi di salute mentale e reparti psichiatrici ospedalieri. Sono cambiati e migliorati moltissimo i farmaci, che hanno permesso la chiusura dei manicomi. Le persone hanno meno vergona e meno paura ad andare dallo psichiatra, anche se certi atteggiamenti resistono. Gli psichiatri hanno la capacità di capire quanto sta male una persona. Per fortuna la mentalità è cambiata, ci sono anche persone conosciute, con importanti ruoli sociali, che vanno dallo psichiatra come se andassero dal dentista. Questa libertà è una grande conquista e corrisponde anche a una grande capacità personale.

Perché c’è ancora tanta resistenza ad ammettere che la psiche umana ha bisogno sostegno?
Le ragioni sono molte. L’idea di avere un disturbo mentale fa molta paura, mette molta ansia e si preferisce far finta di nulla. Andare dallo psichiatra è come ammettere di avere un disturbo; la gente non vuole fare questo passo. Una volta era così anche per i tumori, si negava di averlo, si aveva paura di ammetterlo, poi le cose sono cambiate. Rispetto alle malattie mentali il processo è più lungo, ma ci si arriverà.

Qual è il contributo che il mondo della cultura può dare alla psichiatria?
La psichiatria ha bisogno di storie e di poesia, perché è un mondo senza parole, muto. Quando si sta male non si riesce a comunicare. Il paziente non riesce a dire a se stesso e agli altri ciò che prova, vive in un mondo di solitudine. Nel mio libro cerco di rendere certe atmosfere, di far capire che quello che si crea tra medico e paziente è un rapporto tra persone. Le cose brutte in psichiatria non sono legate a quello che pensa la gente, tipo che il medico o la caposala siano cattivi, ma a realtà come il suicidio, che è imprevedibile ed esiste. Nel libro ne parlo. Ci sono pericoli che dovrebbero far paura e a cui non si pensa. Dovrebbe far paura non curarsi e fare una vita di grande sofferenza. Il mondo della letteratura e delle arti dovrebbe introdurre in questo mondo senza parole qualcosa che illumini, che aiuti a vedere nel buio. Il delirio e l’ansia sono impoetici, come un terreno arido in cui si vive in solitudine. Se la fantasia, le storie, riuscissero a vangarlo, a farlo diventare più comprensibile, le persone starebbero meglio.

Quale metafora letteraria userebbe?
L’immagine della Ginestra descritta da Leopardi, un fiore che nasce su un terremo bruciato dalla lava e per questo viene chiamato pianta pioniera. La poesia dovrebbe avere la funzione della pianta pioniera, attecchire dove non ci sono e non si trovano parole, descrivendo incontri in cui è quasi impossibile comunicare.

Quando incontri un paziente nuovo, la domanda da porsi è: sta vivendo prima o dopo la fine del mondo oppure durante? Sono situazioni completamente diverse

“L’arte di legare le persone”

Considerando il momento che stiamo vivendo, che tipo di conseguenze potrebbe avere la pandemia sui pazienti psichiatrici?
Paradossalmente in alcune situazioni la pandemia può avere l’effetto di diminuire il dolore e sofferenza perché molti pazienti psichiatrici come gli schizoidi, i paranoici, e alcuni depressi vivono in una sorta di lock down volontario permanente. Il fatto che si vieti per legge di uscire di casa e incontrare altre persone per loro è quasi una liberazione, si sentono decolpevolizzate. In altri pazienti psichiatrici, come i maniacali, invece gli effetti possono essere molto negativi, non essendo inclini ad accettare l’isolamento, né gli obblighi di alcun tipo.

Per le persone più giovani e senza patologie invece, che conseguenze potrebbe avere nel lungo termine la situazione pandemica?
Io sono in pensione, non ho un’esperienza diretta, ma posso dire certamente che i bambini e gli adolescenti hanno bisogno di stare tra di loro, di confrontarsi gli uni con gli altri; per i più giovani la situazione diventa molto difficile da sopportare. Gli adolescenti soffrono molto, avranno un ritardo nel fare alcune esperienze della vita, come innamorarsi o diventare più autonomi, ma potranno recuperare. Il problema sono i bambini piccoli.

Perché?
Perché i più piccoli, che hanno rapporti molto stretti con la famiglia, hanno anche bisogno di confrontarsi coi loro simili, giocando, parlando, condividendo spazi ed esperienze. Nei bambini è più difficile recuperare dopo, perché si devono sviluppare circuiti celebrali, che metaforicamente possiamo paragonare a sentieri in un bosco che vanno percorsi per diventare abituali. Percorrere questi sentieri, significa fare esperienza nel capire gli altri, la loro mimica facciale, vivere un litigio a cui segue il mettersi d’accordo: tutto ciò aiuta a comprendere la realtà e come ci si deve comportare. Se questi sentieri non si aprono da bambini, è più difficile recuperare dopo e a lungo termine ciò potrebbe comportare piccoli deficit relazionali.

Cosa si dovrebbe fare per scongiurare questi rischi?
Gli adulti devono dedicare più tempo allo scambio, al gioco coi bambini, non devono lasciarli soli davanti a un computer. Devono cercare di supplire a questa mancanza, anche se nulla sostituisce il fatto che i bambini debbano stare con altri bambini.

Come valuta, invece, il comportamento generale degli adulti di fronte a questa pandemia?
Non bisogna sottovalutare il problema. Finora le persone hanno manifestato una grande responsabilità, si stanno seguendo le regole, si rinuncia ad abitudini e frequentazioni, si accetta, seppur con sofferenza, la perdita di guadagno e di lavoro, con l’obiettivo di uscirne tutti insieme come gruppo. Significa che, per quanto se ne dica, in Italia c’è una grande tenuta sociale, ci sono partecipazione e affidabilità. L’essere umano è per sua natura sociale e quello che stiamo perdendo con l’isolamento, ci fa capire che abbiamo però la capacità di stare uniti, identificarci come gruppo per affrontare un rischio comune. Questo è un fatto positivo.


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