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Sunak e Meloni, sui migranti sbagliate tutto

Hanno fatto molto discutere gli accordi tra Regno Unito e Ruanda e tra Italia ed Albania sui migranti. Diversi ma entrambi sbagliati come approccio. Il perché lo ha spiegato a VITA Andreina De Leo, esperta di diritto internazionale umanitario, nonché ricercatrice presso l’Università di Maastricht, che allerta su come a Bruxelles stiano rinegoziando tutte le leggi in materia di asilo. Con la Commissione Ue che prima delle elezioni europee del 2024 vuole assolutamente approvare una riforma destinata a creare polemiche

di Paolo Manzo

Giorgia Meloni e Rishi Sunak (Credit: Flickr/Number 10)

Come esperta di diritto internazionale umanitario, VITA ha chiesto ad Andreina De Leo, ricercatrice presso l’Università di Maastricht, di spiegare quanto successo in Gran Bretagna, dove la Corte Suprema ha respinto la proposta del governo Sunak di inviare in Ruanda gli immigrati clandestini. Inoltre le abbiamo chiesto quali siano le differenze rispetto all’accordo siglato dal governo Meloni con l’Albania.  

Andreina De Leo (Credit: Linkedin)

«I due accordi sono molto diversi ma è bene premettere una cosa.

Che cosa?

Che è impossibile arrivare legalmente in Europa per una persona richiedente asilo. Chi lo chiede arriva da paesi dove dove i visti non vengono rilasciati o perché i migranti non hanno le condizioni economiche per potere ottenerli o perché le ambasciate sono chiuse in zone di conflitto. Quindi l’unico modo per arrivare nella Ue e chiedere protezione internazionale è per via irregolare, a meno che non ci siano progetti di corridoi umanitari».

Può spiegarci il caso inglese? 

«Nel momento in cui i migranti richiedono asilo dopo essere arrivati irregolarmente il governo Sunak vuole inviarli in Ruanda affinché Kigali si faccia carico dell’esame della loro protezione internazionale. Applicando un concetto utilizzato spesso da vari paesi occidentali che si chiama paese terzo sicuro».

La Corte Suprema britannica ha però cassato il progetto Sunak.

«Sì, ha analizzato il sistema d’asilo ruandese, identificato una serie di problemi e concluso che non c’è sicurezza che le autorità ruandesi esaminino in modo corretto le domande. E, dunque, che esiste il rischio che dal Ruanda i migranti vengano rimandati nei loro paesi d’origine. Dove possono subire persecuzioni».

In cosa si differenzia il caso inglese da quello italiano?

«Roma non ha alcuna intenzione di incaricare Tirana di trattare le domande d’asilo in Albania. Manderebbe là dei funzionari italiani sotto giurisdizione italiana, facendo esaminare a loro la domanda di protezione internazionale. Almeno questo in assenza dei decreti attuativi che spieghino meglio come questo avverrà.

Una volta che la domanda ha avuto successo i migranti saranno riportati in Italia. In caso contrario i rimpatri si faranno direttamente dall’Albania se, ovviamente, ci sono accordi di rimpatrio con i paesi d’origine.

Il problema è che spesso questi paesi non riprendono indietro i propri cittadini. Per questo le persone rimangono in un limbo: dovrebbero essere rimpatriate ma in pratica non si può fare. Questi casi sono la maggioranza e poi producono i migranti irregolari presenti sul territorio italiano. Dunque, a prescindere dagli aspetti legali, dovrà essere valutata anche l’effettività dell’accordo Roma Tirana».

Cosa dovrebbe fare l’Italia per tentare di risolvere questa impasse? 

«I profili di legalità di Gran Bretagna ed Italia sono diversi. Nel caso britannico dell’accordo con il Ruanda è molto più evidente, è illegale perché le procedure d’asilo a Kigali non funzionano.

Il caso italiano è più complesso, nel senso che nel momento in cui le procedure d’asilo vengono fatte dagli italiani, è difficile dire che ai sensi del diritto internazionale se c’è una violazione solo perché le fai in Albania. Ma il problema è anche diverso anche per il diritto comunitario perché il Regno Unito è uscito dalla Ue e quindi ha meno vincoli legali da rispettare, mentre l’Italia è parte della Ue, che non si capisce bene cosa voglia fare».

In che senso?

«Perché la procedura d’asilo ai sensi dell’Unione europea deve essere fatta sul territorio dell’Ue e l’Albania non ne fa parte. Sinora però la Commissione Ue ha detto che semplicemente il caso italiano si trova al di fuori del diritto dell’Unione europea, per cui vale solo il diritto nazionale. Qui, a mio parere, bisognerà capire se poi l’Italia ha intenzione di dare solo permessi nazionali».

E quindi? 

«Potrebbe essere solo in realtà una trovata politica per dimostrare che a Roma si sta facendo qualcosa, però è interessante l’approccio della Commissione che se ne è lavata le mani non spiegando perché ritenga che non sia applicazione del diritto dell’Unione». 

Come interpreta questa posizione pilatesca?

«Preoccupa la modalità con cui la questione è stata gestita dal punto di vista politico. A Bruxelles stanno rinegoziando tutte le leggi in materia di asilo e la Commissione prima delle elezioni europee del 2024 vuole assolutamente che queste riforme siano approvate. Non si sono voluti alienare l’Italia, un paese importante ai fini della tenuta del sistema Ue».

Sul patto Italia Albania, cosa prevede il diritto italiano?  

«Non c’è un’evidente violazione solo per il fatto che le fai in Albania. A mio parere il problema sarà poi capire come, a livelli pratici, dai accesso ai giuristi ed agli avvocati a Tirana. Prenderanno traghetti Puglia Albania per andare là ad ascoltare i richiedenti? Le interviste saranno fatte tramite videoconferenze, il che ovviamente non tutela come un’intervista in presenza?

E poi, se hai un diniego ma puoi fare appello in giudizio, chi è competente per una procedura che avviene in Albania? Quando tu vieni detenuto nei centri di Tirana, chi è il giudice competente per convalidare l’ordine di detenzione se la procedura è in Albania?

Ci sono tutta una serie di punti interrogativi che potrebbero inficiare l’effettività della procedura e renderla non confacente neanche al diritto italiano ma, ovviamente, fin quando il governo Meloni non darà dettagli più precisi sono tutte speculazioni».

La riforma a livello europeo sul diritto d’asilo come cambierà l’attuale situazione e cosa bisognerebbe modificare per gestire meglio i flussi?

«Purtroppo non va ad aiutare paesi come l’Italia. Quello che stanno cercando di modificare è il sistema di Dublino, per cui i paesi competenti ad esaminare le procedure di protezione internazionale sono quelli di primo arrivo, allargando un po’ di più coloro che vengono considerati familiari e consentendo ad una persona che ha tutta la famiglia in Germania e vorrebbe andare lì perché ha più possibilità di integrazione ma arriva in Italia di farlo.

Lo stesso per gli studenti che precedentemente avevano studiato in un altro paese membro. Però sono modifiche piccole che alla fine non vanno a scardinare il principio maggiore, che la maggior parte delle persone che arrivano irregolarmente in un paese dei confini esterni dell’Unione europea dovranno rimanere lì. Per questo l’Italia non non avrà benefici dalla riforma del sistema di Dublino.

Inoltre, sulle procedure vogliono creare sistemi chiusi, ovvero dei centri di detenzione alle frontiere esterne dove le persone vengono automaticamente detenute una volta che fanno domanda di protezione internazionale ed entro sei-quattro settimane, con un iter accelerato, si decide se la persona ha diritto o meno.

Questo vuol dire che l’Italia dovrà creare una serie di centri chiusi in tutte le coste della Sicilia e della Puglia per trattare le domande super velocemente, il che ovviamente implica un onere finanziario maggiore ancora di quello attuale.

Altro problema è se la domanda viene respinta e non c’è accordo con i paesi di origine. L’unica cosa su cui l’Italia ha vinto è che Roma ha fatto inserire una clausola per cui quando ci sono troppi migranti nei paesi di primo arrivo che non riescono a gestirli, altri Stati possono adottare misure di solidarietà o i ricollocamenti». 

Il problema è che sempre più Stati membri non vogliono i migranti.

«Sì, l’Ungheria e la Polonia non lo accetteranno mai. Ma possono decidere di finanziare dei progetti nel paese nello Stato membro sotto pressione. Progetti che l’Italia vorrebbe vedersi finanziati sono quelli per rafforzare le guardie costiere dei paesi africani al confine.

L’Italia non sta spingendo molto affinché altri paesi Ue si prendano carico dei migranti, ma che le diano soldi da girare poi a Tunisia, Egitto e Libia, dove c’è una situazione di violazione dei diritti umani evidente e documentata.

Questo crea una situazione di maggiore instabilità, finanziando governi dittatoriali che bloccheranno le persone per un po’ ma destabilizzano tutta la società civile. E così facendo i flussi migratori continueranno ad aumentare. Secondo me questo approccio di gestione è totalmente fallimentare».

Che soluzione dunque?

«L’unica modalità sarebbe trovare un modo per avere una vera solidarietà tra Stati membri. Ovvero un’equa ripartizione di responsabilità all’interno dell’Unione europea. E un utilizzo dei fondi non dati a paesi terzi, ma usati per creare centri in grado di gestire le domande in maniera umana e accelerata.

Perché se tu non li metti tutti in Sicilia ma dai soldi per distribuirli in tutta Italia in cui c’è spazio e se li gestisci in maniera intelligente sarebbe totalmente fattibile. Inoltre, le persone che non possono essere rimpatriate ma che sono integrate, lavorano, parlano la lingua bisognerebbe regolarizzarle. Così le togli dal mercato nero.

In Italia risolveresti anche una serie di problemi che riguardano la sicurezza pubblica. Perché ovviamente se lasci i migranti senza un permesso di soggiorno, senza un lavoro, precari al 100% ovviamente poi aumentano anche questo tipo di problemi». 


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